Superlega, sicuri che sia il male assoluto del calcio?

Superlega, sicuri che sia il male assoluto del calcio?

(Photo by FRANCK FIFE/AFP via Getty Images)

La Premier League vinta dal Leicester e l’Atalanta in Champions League. La vulgata del calcio romantico, almeno in Italia, si asserraglia dietro alle due “favole” più recenti che il calcio ha regalato agli appassionati. E poco importa se il Leicetser che vinse il titolo con Claudio Ranieri era in mano, sin dal 2010, di una cordata di imprenditori thailandesi con a capo Vichai Raksriaksorn., uno degli uomini più ricchi del Paese. O che il patrimonio di Antonio Percassi, patron dell’Atalanta, sia stimato attualmente in 1,3 miliardi di dollari.

Due belle storie, se vogliamo due favole, ma figlie del tempo, e del calcio, moderno.
Quel calcio che oggi Ceferin, a capo della Uefa, che questa slavina l’ha – più o o meno direttamente – provocata, vorrebbe disconoscere. Parlando di club avidi. Come se la stessa Uefa, negli ultimi decenni, si fosse comportata come un ente morale. La nascita – per ora tutta sulla carta – della già famigerata Superlega ha risvegliato un intero mondo di romantici da tastiera e di nostalgici di un tempo che fu e che, in realtà, non hanno mai vissuto. Una dinamica a dir poco paradossale. Ma soprattutto fuori contesto. Perché il calcio è business praticamente da sempre. Anzi, del popolo, in realtà, non è mai stato. Aristocratico, come ogni sport, diventa popolare nel momento esatto in cui diventa professionismo. Ossia da quando iniziano a girare interessi economici: stipendi, botteghini, premi. Un secolo fa.

Il calcio, in Italia, è stato in mano dei grandi capitani d’industria – dai Moratti agli Agnelli, passando per Mantovani, Cragnotti, Tanzi, Della Valle – praticamente da sempre. La Serie A, con il calcio popolare di cui tanti, troppi, si riempiono la bocca, non ha niente a che fare. Non si capisce bene chi fa le barricate di fronte alla minaccia della Superlega, perché ad ora di minaccia si tratta, che tipo di calcio stia difendendo. Per carità, belle le parole di Klopp, impattante la protesta della Kop, tanto per restare a Liverpool. Ma l’Inghilterra è quel Paese in cui il calcio è rinato esattamente con una dinamica del genere. Nel 1992, le 22 squadre della First Division ruppero con la Football League, per ragioni squisitamente economiche, fondando la Premier League.

Già, la Premier League che piace tanto a tutti. Quella degli stadi lustri ed iper tecnologici, sempre colmi di tifosi e famiglie, nonostante i prezzi altissimi dei biglietti. La Premier League diventata terra di conquista di multinazionali americane e ricchi emiri, ma anche di oligarchi russi. Il Liverpool, ad esempio, è di proprietà del Fenway Sports Group, società cui fa capo anche la franchigia della Mlb dei Boston Red Sox. Il calcio è business da sempre, ma anche innovazione, e se è vero che l’innovazione non è di per sé migliorativa, spesso lo è. La stessa Champions League, quando nacque, era un’innovazione. E rispondeva ad un’esigenza precisa: più partite per moltiplicare gli introiti dalle televisioni.

Un modello che si è rivelato vincente per anni, ma che adesso non basta più. O almeno, non basta alle grandi squadre. Quelle che, oggi (non ieri, oggi), nell’immaginario di centinaia di milioni di tifosi di tutto il mondo, rappresentano il meglio del calcio. Convinte che si possa e si debba fare meglio, costruendo un prodotto infinitamente più remunerativo, per loro, dell’attuale Champions League. Il filo conduttore, in sostanza, è sempre lo stesso: i soldi, i fatturati. Esattamente com’era dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta anni fa. E come succede in altri sport, come il basket.

Il paragone, però, andrebbe fatto più che con la Nba con l’Eurolega, un torneo ad inviti nato nel 2001 e diventato in un paio d’anni il più spettaoclare dopo la Nba. Entrarci è difficilissimo, ma esistono altre competizioni organizzate dalla Fiba, e i campionati nazionali sono più vivi che mai.

Vediamo come andrà, se si rivelerà una minaccia e nulla più, per mettere pressione alla Uefa ed avere maggiore potere, o se i 12 golpisti andranno fino in fondo. E da chi, quando il sensazionalismo dei primi giorni sarà passato, verranno eventualmente raggiunti. Le divisioni sono profondissime, le minacce della Uefa, a giocatori e club, dure, ma superabili, perché immaginare la Serie A senza Inter, Juventus e Milan sarebbe autolesionismo allo stato puro. E pensare di prendere i grandi club per la gola non è la soluzione. La Superlega, per molti, è un processo inevitabile, l’unico modo per rispondere ad un mercato in costante cambiamento. Con cui, nonostante qualcuno rimpianga Lentini pagato in nero e il totonero, anche il calcio deve fare i conti. Almeno il calcio che vive in tv e sui giornali. Quello che pare inorridire molti, principalmente quelli che lo alimentano da sempre.