SuperLeague, rapido declino di un progetto bocciato da tutti
Tra qualche anno le ricorderemo come le 48 ore che avrebbero potuto stravolgere il destino del calcio europeo. Senza riuscirci. Tanto è durato il progetto della SuperLeague, svelato tre notti fa, e sepolto la notte scorsa. In realtà, Florentino Perez e Andrea Agnelli, almeno a parole, ci credono ancora, ma dopo l’inversione a U dei club inglesi – Chelsea, Manchester City, Manchester United, Arsenal e Liverpool – è difficile immaginare un futuro florido per un progetto tanto ambizioso. Reso pubblico nel peggiore dei modi, comunicato ancora peggio, osteggiato, sin dai primi vagiti, da tutti: stampa, giocatori, allenatori, politici e ovviamente tifosi.
Che, pare, hanno riportato una vittoria epocale con il crollo della torre d’avorio in cui il gotha del calcio europeo pareva pronto a rinchiudersi. Pare, perché realisticamente è difficile credere che imprese del genere, che del sentimento popolare si sono sempre beatamente fregate, abbiano fatto marcia indietro spinte dalla rivolta social. Più probabile che a pesare siano state le neanche troppo velate minacce del Governo britannico, più ancora che della Uefa. L’abbandono dell’Inter è una conseguenza dello sgretolamento del giocattolo, e il Barcellona, c’è da scommetterci, seguirà a breve, giustificando la propria scelta con il voto dei soci.
Ufficialmente, così, resterebbero Real Madrid, Juventus, Atletico Madrid e Milan: un po’ poco per costruire una lega indipendente ed alternativa alla Champions League. Se sarà stata una salvezza, o un’occasione persa, solo il tempo sarà in grado di dirlo. Di certo, è stata una prova di forza, che ha perlomeno avuto il merito di smuovere le acque in seno alla Uefa. Che, al di là delle minacce delle prime ore, è ben contenta di riabbracciare il club che rendono remunerativo, per tutti, il calcio europeo. Ci sarà chi, ovviamente, continuerà a strepitare e chiedere punizioni esemplari, non si sa bene per quale reato. Ma anche chi, dentro e fuori dagli organismi del calcio internazionale, ha ben chiara l’antifona.
I debiti sono enormi, per tutti, sia per i grandi che per i piccoli, e la Champions League così com’è non è un prodotto attrattivo, e quindi vendibile, sugli enormi mercati di Usa e Asia. La riforma presentata due giorni fa è un primo passo, ritenuto evidentemente insufficiente, ma qualcos’altro andrà fatto per andare incontro alle esigenze dei grandi club. Perché va bene la competizione, ben vengano le favole, viva il calcio che fa sognare i tifosi, ma sono loro a portare acqua al mulino del calcio europeo. E senza di loro, e i loro soldi (e i loro debiti, certo), non c’è spettacolo e non c’è Champions League.
L’impressione, alla fine, è che ci si trovi di fronte comunque ad una fesa nuova, all’inizio, più che alla fine, di un percorso iniziato già da qualche anno. Che la pandemia, e la crisi economica che ne è seguita, ha sicuramente accelerato, ma non ispirato. Il pericolo di un calcio degli eletti, cui contrapporre ideologicamente il calcio dei meritevoli, per ora è scampato. Ma i temi per cui la SuperLeague è stata pensata sono ancora tutti lì, e prima o poi andranno risolti. Con buona pace dei tifosi più romantici, che saranno ben lieti di sapere, immaginiamo, che il loro club fatturerà il doppio dalla prossima stagione. Del resto, si fa presto ad adattarsi, come raccontano i tifosi del Manchester United dei Glazer, osteggiati e odiati, ma ancora lì, con l’Old Trafford sempre pieno.