Eravamo tutti pronti, senza esserlo davvero. Accade con i grandi nomi, amati o vituperati che siano. Chi entra nella pancia, come si suol dire. Chi lascia la proverbiale impronta, agli adulatori e agli ostili. Nella giornata di oggi, 12 giugno 2023, è venuto a mancare Silvio Berlusconi. Lo storico presidente del Milan, dal 1986 al 2017, è morto all’età di 86 anni. Il suo addio, innegabilmente, ha strappato una parola a tutti. Sia a coloro che lo hanno osannato, così come a coloro che lo hanno combattuto nel corso della sua lunga carriera. Proprio come avrebbe voluto Berlusconi, probabilmente. Divisivo, o lo ami lo odi. Senza vie di mezzo.
Il Cavaliere lascia il ricordo di un grande Milan che fu, capace di costruire un impero composto da 29 trofei ufficiali in 31 anni di presidenza. 13 internazionali, di cui 5 Champions League. 16 in Italia: 8 scudetti, una Coppa Italia, 7 Supercoppe Italiane. Lascia anche il ricordo di un Monza che conquista la prima storica promozione in Serie A, dopo 4 anni dall’acquisto nel 2018. Lascia soprattutto il ricordo di… Silvio Berlusconi. Alcune fotografie sono nell’album di famiglia di milioni di tifosi del Milan. Altre sono aneddoti, paragoni, analogie, storielle del grillo parlante che ti importuna parlandoti dei ricordi passati. “Padroni del campo e del giuoco”. Il motto, il mantra, il diktat. L’archè da cui tutto si genera e tutto ritorna nella mentalità del Milan. Perché il Milan non doveva vincere, doveva scintillare. Doveva appassionare. Perché era il Milan ma, soprattutto, era il Milan di Silvio Berlusconi.
Campo e giuoco. E quanto amava giocare Berlusconi: le grandi stagioni non si concretizzavano solo nei risultati del campo. O meglio: le grandi partite non si limitavano ai 90 minuti. Perché se entrava in scena Berlusconi, potevano iniziare ben prima o finire ben più tardi. E il giuoco, chiaramente, lo voleva gestire lui. Così iniziavano le settimane di avvicinamento ai big match con i ‘consigli’ tattici, così come arrivavano le lunghe – parecchio lunghe – analisi post partita del Presidente, specialmente se il risultato non era stato favorevole, con tutte le sue mosse giuste che andavano seguite. Guai a togliere luce al Presidente, estroso, egocentrico, protagonista, permaloso.
“Si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi – ribadiva con forza nel 2004 – eppure sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compero i giocatori”. Sfacciato, sempre. Berlusconi rilanciava, sempre e comunque. Anche quando aveva solo una coppia di due in mano. Il primo rilancio lo fa appena entra nel mondo Milan nel 1986 quando, dopo un brutto ko dei rossoneri nel trofeo Gamper, della guida tecnica di un certo Nils Liedholm, afferma: “Questo è un Milan con un gioco non funzionale al gol. Vinceremo poco”. Liedholm replica, di fioretto: “Lui è molto bravo, capisce di calcio: è stato allenatore dell’Edilnord”. Inutile dirlo: esonerato ad aprile.
Eccome se amava giocare Berlusconi. Non si nutriva del concetto di ‘nemici’, che anzi disdegnava a affibbiava a chi lo contestava, ma poche cose lo esaltavano come il concetto di ‘rivali’. Ogni cosa era una sfida, un cambiamento, una rivoluzione col timbro Berlusconi ben visibile. Da Moratti ad Agnelli. Dall’Italia all’Europa. Dal campionato alla Coppa dei Campioni, fino all’Intercontinentale. Senza limiti, rilanciando. Sempre. Amava anche diversificare, non solo gli investimenti, ma anche i campi da giuoco stessi. Per questo, ogni tanto, in pieno crossover ti inseriva figure come “gli arbitri di sinistra” o delle rivisitate richieste: “I miei elettori mi chiedono due cose: Silvio salvaci dai comunisti e Silvio compraci Ronaldinho”.
Dal calcio discendeva tutto il resto di Berlusconi e, il suo Milan, lo rispecchiava. Per questo ha regalato al mondo dell’arte i quadri del Milan di Sacchi, al mondo della musica il rock del Milan di Capello e, al mondo del cinema e della letteratura, le storie incredibili di certe serate del Milan di Ancelotti. Berlusconi era anche un collezionista, non solo di trofei ma di talento. Berlusconi amava che fosse lui, per primo, a vedere il talento. Se altri criticavano, ci credeva ancora di più. E lì entrava in gioco l’’umanismo’ di Berlusconi. Lui che voleva conoscere le persone meglio di quanto si conoscessero loro stesse. Che voleva motivare, rassicurare, essere amico e confidente di giocatori e allenatori. Ne sono riprova il forte rapporto con Shevchenko, passato da momenti di avversità dopo l’addio dell’ucraino nel 2006. Che dire dell’’’ossessione’ per il naso di Tassotti, dell’amicizia sfociata in politica con Giovanni Galli, della complicità con Kakà, il trequartista che il Cavaliere così descriveva: “È il ragazzo che vorresti sposasse tua figlia”.
I suoi ultimi anni ai vertici del Milan hanno messo a dura prova il rapporto con certe frange di tifosi a cui, il presidente ribadiva: “Dobbiamo ricominciare ma, dopo 26 anni a caviale e champagne, bisogna avere pazienza”. Qualche tifoso non gliel’ha perdonata, probabilmente neppure oggi. Alcune crepe nascevano da prima, da prima degli anni complicati che hanno chiuso la storia berlusconiana con quella bizzarra cessione a Yonghong Li del 2017. Qualcuno non gli ha perdonato le contraddizioni che, in quegli anni, ridimensionarono le ambizioni del Milan come quella del sopracitato Kakà, ‘blindato’ a gennaio del 2009 e difeso dalle lusinghe del nuovo Manchester City degli sceicchi, per poi essere ceduto pochi mesi dopo al Real Madrid. Un’altra ferita ancora aperta per molti, è quella relativa all’addio di Ibrahimovic e Thiago Silva nel 2012, probabilmente, il vero punto finale sugli anni gloriosi del Milan di Berlusconi. Non manca nulla nella grande corsa di Berlusconi, un uomo nato per toccare in modo estremo le sensazioni dei suoi interlocutori. Nel bene e nel male. Alla sua maniera, sempre alla sua maniera. “Per tutta la mia vita ho fatto sogni che a tutti sembravano irrealizzabili” affermava pochi mesi fa. Ora, è arrivato il momento del saluto. Faccia buon viaggio, presidente.