Roberto Mancini – La dura vita dei predestinati
Predestinato-agg. Destinato a qualcosa (es.essere predestinato alla gloria)
s.m. Chi è destinato a un fine particolare, importante.
L’Intera vita calcistica di Roberto Mancini, il “Mancio” per gli amici e fans della primissima ora, è stata segnata da questa definizione. Del resto quale aggettivo migliore si potrebbe trovare per chi ha fatto il suo esordio, non sfigurando, nella “Serie A da bere” degli anni ’80, in un’età in cui i suoi coetanei sono impegnati per lo più ad affinare improbabili doti da playboy o ad inseguire ideali, sogni, progetti che non vedranno mai la luce.
Roberto da Jesi, invece, è riuscito a realizzare il sogno di sfondare nel Calcio con la C maiuscola, aiutato e non poco da chi stravedeva per le sue doti da fantasista col fiuto del gol pronto allo stesso tempo a chiudere un occhio davanti alcuni eccessi legati ad un carattere non del tutto morbido, sanguigno ed istintivo, proprio come le sue giocate.
Un timido passionale come lo ha definito Gianluca Pagliuca, amico e compagno negli anni indimenticabili alla Sampdoria, conditi da uno scudetto clamorosamente bello e romantico, da una Coppa delle Coppe, da diverse Coppe Italia e una Supercoppa Italiana, con la ferita lancinante e mai rimarginata della sconfitta in finale di Coppa dei Campioni con il Barcellona nel 1992.
Anni ruggenti, caratterizzati dall’entusiasmo di un gruppo di amici, prima che colleghi, felici di svolgere il lavoro più bello del mondo, come lo stesso CT della Nazionale ama ripetere sovente.
Anni replicati, a fine carriera e con maggiore consapevolezza, in una Lazio farcita di campioni ma caratterizzata anch’essa dal puro piacere di divertirsi sul rettangolo di gioco.
Tuttavia, porre un freno ad un temperamento così marcato non è impresa da poco e, caso vuole, che gli episodi più sfortunati della carriera del Mancio giocatore si siano verificati quasi sempre in Nazionale.
Maglia Azzurra tanto agognata, tanto desiderata e mai veramente indossata quanto classe ed estro avrebbero meritato. Bearzot decide di convocarlo, neanche ventenne, per una tournée negli Stati Uniti e Roberto pecca subito di gioventù facendo le ore piccole nella tentacolare New York durante il ritiro, mandando su tutte le furie il CT che lo estrometterà dai convocati per il Mondiale in Messico nel 1986.
Un biennio con Azeglio Vicini in panchina, con tante ombre e l’unica luce abbagliante del gol meraviglioso contro la Germania Ovest agli europei del 1988, con annessa esultanza polemica nei confronti della stampa in tribuna rea di eccessive critiche nei suoi confronti.
Il Mondiale del 1990, tra le mura italiche, vissuto totalmente in panchina e, qualche anno più in là, l’episodio che meglio descrive la sregolatezza che ha accompagnato il genio del Mancini calciatore per la sua intera carriera: vigilia dei Mondiali di USA ‘94, il CT Sacchi, integralista del 4-4-2, crea il dualismo tra Roberto Baggio ed il Mancio. Negli schemi del selezionatore solo uno dei due può partire titolare ed il prescelto è il Divin Codino. Mancini non accetta di fare da vice neanche ad un fuoriclasse come Baggio rifiutando incredibilmente la convocazione.
L’attuale mister della Nazionale ammetterà molti anni dopo di aver commesso un errore marchiano.
Per Antonello Venditti, però, “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, specie per i predestinati come il Mancio che appese le scarpette al chiodo e, passato dall’altra parte della barricata, dopo aver praticamente vinto con tutte le squadre da lui allenate (Fiorentina, Lazio, Inter, Man City, Galatasaray) chiude il suo maledettamente complicato cerchio con la maglia Azzurra diventando nel 2018 selezionatore della Nazionale maggiore, essendoci andato molto vicino già nel 2014 in seguito al disastroso Mondiale brasiliano.
Si tratta di una scelta meramente dettata dal cuore, come accaduto per altre esperienze passate. Mancini rinuncia al sontuoso ingaggio percepito in Russia e si fionda anima e corpo in quella che lui ritiene una missione più che un lavoro. Si ritrova tra le macerie derivanti dalla mancata qualificazione ai Mondiali del 2018, targata Gian Piero Ventura e davanti al muro della ricostruzione di un gruppo a pezzi moralmente e tecnicamente.
Il neo CT studia, parla con in senatori della rosa, approfondisce le dinamiche interne e riparte da un concetto tanto semplice da predicare quanto difficile da ottenere, entusiasmo.
Attorno alla Nazionale dovrà crearsi entusiasmo, i tifosi dovranno nuovamente sedersi davanti alla tv per guardare con piacere e passione le partite degli Azzurri. Ricordandosi di quanto affiatamento ci fosse tra i componenti delle squadre con le quali scrisse la sua personale carriera da giocatore, il Mancio inizia lentamente a creare il giusto mix tra freschezza, spensieratezza, malizia e maturità.
L’attecchimento delle sue idee non è di certo immediato. Mancini tenta, invano, l’ennesimo recupero del suo pupillo Balotelli, l’Italia, nel frattempo, rischia di retrocedere nella Serie B della Nations League dopo prove poco esaltanti.
Eppure la scintilla scatta improvvisamente una sera di ottobre a Chorzow contro la Polonia. Una vittoria striminzita, non propriamente limpida, che viene posta come base del nuovo corso.
Il tanto pubblicizzato entusiasmo inizia a prendere forma. Il CT, che ha sempre messo al primo posto la qualità e che non si tira indietro nel lanciare i giovanissimi su grandi palcoscenici, si prende il lusso di convocare tanti esordienti che diventeranno dei capisaldi della squadra (Donnarumma, Barella, Sensi, Zaniolo, Pellegrini, Orsolini) affiancandoli ad uno zoccolo duro (Bonucci, Chiellini, Jorginho, Verratti) e ad elementi di affidabilità sicura (Acerbi, Romagnoli, Belotti, Insigne, Immobile, Sirigu). L’Italia, quasi per magia, inizia a vincere e a non fermarsi più. Percorso netto nelle qualificazioni agli Europei del 2020 (10 vittorie, 37 gol fatti, 4 subiti), entusiasmo alle stelle e, finalmente, un ritrovato piacere nel vivere le partite della Nazionale, non più relegata a mero fastidio derivante dall’interruzione del campionato.
Si parte da un 4-3-3 di base con due play come Jorginho e Verratti che si alternano nei movimenti pronti ad innescare Belotti e Immobile. Attenzione però a non parlare troppo di moduli col Mancio, vi ripeterà allo sfinimento che quello che realmente conta è l’attitudine, il modo di interpretare la partita.
Il CT nei mesi scorsi, in barba a qualsiasi scaramanzia, come solo i predestinati riescono a fare, ha dichiarato pubblicamente che sulla carta l’unica squadra realmente più forte degli Azzurri è la Francia campione del mondo.
Toccherà dimostrarlo a chi va in campo. Indipendentemente dalla vittoria l’aspetto fondamentale su cui concentrarsi sarà quello di continuare nel solco del bel gioco sin qui segnato e del ritrovato ed incontenibile entusiasmo. La Bosnia è il tipico avversario da prendere con le molle, ma questo gruppo ha dimostrato di avere l’incoscienza giusta per non temere nessuno e per non snaturarsi davanti all’avversario. Il percorso è appena iniziato e ci sarà ancora molto tempo per affinare i difetti e gli errori e chissà che l’estate del 2021 non ci riservi nuovamente delle notti magiche, magari con un epilogo meno amaro.
Del resto il Mancio lo sa, per i predestinati non ci sono limiti di alcun tipo.