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Razzismo, l’urlo di Boateng ci riporta alla realtà

Il 3 gennaio 2013 il Milan affronta in un’amichevole post natalizia la Pro Patria. Per Busto Arsizio, sarà una giornata da dimenticare. La città, infatti, viene umiliata dalla stupidità di alcuni dei suoi tifosi. Che, invece che ringraziare il cielo di poter vedere da vicino un campione come Kevin-Prince Boateng, pensano bene di dedicargli il più squallido e becero degli insulti. I “buuu” razzisti che, da anni, infestano gli stadi italiani, senza eccezioni o quasi. Ululati vergognosi, che si alzano tanto dalle curve quanto dalle tribune. Perché gli stadi, si sa, sono un porto franco, in cui tutto è concesso, specie dare libero sfogo ai peggiori istinti.

Sì, perché di istinto si tratta. Quello che spinge migliaia di persone a ululare a un giocatore di colore è istinto. Istinto razzista. E a poco, anzi a nulla, valgono le spiegazioni e le giustificazioni. Non ce ne sono. Come non ce n’erano 8 anni fa, quando Boateng fermò il gioco, scagliò il pallone verso le tribune, e se ne andò. Seguito da tutta la sua squadra. Un gesto che fece rumore, assolutamente condivisibile, eppure criticato da molti, all’epoca. Convinti, chissà se in buona fede o meno, che fosse una reazione eccessiva. Da allora, in Europa di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, la lotta alle discriminazioni è diventata centrale nelle politiche della Uefa, e piano piano sembra che una nuova sensibilità si stia affacciando anche negli stadi.

La prova del nove ce l’avremo solo quando riapriranno i cancelli, ma la lezione americana è arrivata anche qui, e le battaglie del “Black Lives Matter” sono diventate di tutti. Anche i calciatori, finalmente, hanno trovato il coraggio di metterci la faccia e impegnarsi in prima persona. Con l’esempio eclatante dell’incontro sospeso tra PSG e Basaksehir di Champions League. Dove, senza tifosi, è stato il quarto uomo a chiamare “negro” un calciatore. Senza alcuna malizia, senza alcuna volontà di essere offensivo, ma definendo un uomo per il colore della sua pelle. E sì, è una forma di razzismo, forse la più subdola e inconscia. Che ci dà la misura di quanto ci sia ancora da fare.

Ma anche di quanto i calciatori di colore, in questa battaglia, si ritrovino spesso soli, specie in Italia. A dirlo, da Monza, la sua nuova casa, è proprio Boateng, sempre in prima linea in questi anni. Che al Corriere della Sera ha spiegato: “Nessun bianco mi ha mai detto di volermi sostenere in questa battaglia. Qualcuno si astiene per paura, altri perché ritengono sia più vantaggioso non esporsi in una vicenda che non li riguarda. Comandano i bianchi: se alzassero la voce loro, saremmo più ascoltati”. In poche righe, c’è tutto dell’arretratezza culturale e del cinismo retorico del mondo del calcio.

Un mondo in cui i bianchi hanno ancora in mano i gangli del potere, economico e mediatico. Ma, soprattutto, un mondo in cui esporsi e prendere posizione è ancora difficile. E trovare scuse, fare finta che non ci riguardi, che il problema del razzismo sia, in fin dei conti, marginale, è solo un tentativo puerile di mettere la testa sotto la sabbia. Non c’è più nulla da cui nascondersi e nulla da ignorare, c’è solo da decidere da che parte stare, in maniera libera e cosciente, senza tanti calcoli. E non inginocchiandosi una volta all’anno in mezzo al campo. Non basta un gesto simbolico, serve un impegno quotidiano, di tutti. Che vada ben al di là degli spot della Uefa prima delle dirette della Champions League in tv. Servono gesti forti, come quello di PSG-Basaksehir, che chissà se in uno stadio pieno sarebbe mai avvenuto.

Ci vuole coraggio, e qualcuno potrebbe obiettare che non è da tutti essere coraggiosi. Vero, ma a volte bisogna esserlo per gli altri, per i nostri amici, per i nostri colleghi, per i compagni di squadra. Perché, senza retorica, il calcio è di tutti, e i primi a doversi indignare dovrebbero essere i calciatori. Come si può permettere che da un settore dello stadio arrivino offese a sfondo razziale ad un collega senza fare nulla per impedirlo? Ha ragione Boateng, senza se e senza ma. Quella contro il razzismo è una battaglia campale, di civiltà, ed è assurdo che non la combattano tutti, in campo e fuori. Per traghettare finalmente il calcio fuori dal Medioevo culturale cui troppe volte sembra ancora appartenere.

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Published by
Piermichele Capulli