Porte chiuse ma bocche fin troppo spalancate, non da oggi
“Ah però”. Credo che sia la sintesi perfetta, dopo gli episodi che si sono susseguiti recentemente sui campi di calcio. O almeno, è il primo pensiero che sovviene ascoltando i diverbi sui campi della Serie A. A scoperchiare il vaso di Pandora, quasi come apripista, fu l’episodio di luglio 2020, nel match tra Atalanta e Bologna. Intorno alla fine del primo tempo, tra le urla di incitamento, iniziano ad imporsi espressioni ben udibili tra i tecnici Sinisa Mihajlovic e Gian Piero Gasperini. “Parla con i tuoi e non rompere il c***o! Non rompere il c***o!” l’urlo che si solleva dalla panchina del Bologna. Il mittente è, neanche a dirlo, il focoso Sinisa Mihajlovic. Ad essere espulso però è Gasperini che, dal suo canto, si rivolge all’arbitro: “Ma cosa fai?! E tutta questa caciara?” (indicando la panchina del Bologna, ndr).
Erano i primi lampi del calcio meno incravattato dove, in assenza del boato dei tifosi, prendeva la scena il ruggito degli allenatori, così come dei calciatori. Un’escalation che è culminata fino ai recenti episodi di Coppa Italia, quella di quest’anno vero e proprio ‘teatro di guerra’. Quanto lavoro per la Procura Federale. Nel derby dei quarti di finale, ha fatto il giro del mondo lo scontro tra titani Ibrahimovic-Lukaku. Una controversia ancora aperta dove, verosimilmente, si cercherà di capire se le parole dello svedese possano essere riconducibili alla discriminazione razziale.
Pronti, via e la semifinale offre ancora di meglio: Antonio Conte contro Andrea Agnelli. Il tecnico si affida alla mimica del corpo con un dito medio, gesto intramontabile fin dalle scaramucce di Pinocchio e Lucignolo alla maestra di scuola. Il presidente bianconero, al fischio finale, suggerisce una destinazione, a suo dire, congeniale per il dito medio del tecnico. Ed è così che, dopo anni di cori discutibili, insulti, episodi censurabili nei ‘templi del calcio’, sono i protagonisti stessi del pallone a rendersi autori di scene da bollino rosso.
My game is Fair Play. Alla faccia, verrebbe da dire. Ed è così che, tra i tanti spot, iniziative, discorsi conditi da messaggi positivi, il pallone mostra la sua vera faccia. Per carità, non lo si scopre certo oggi. Tantomeno giocatori, allenatori e presidenti non sono impazziti improvvisamente nel 2020, o nel 2021. Basta aver vissuto questo mondo fin dalle sua categorie base, per rendersi conto che il calcio è esattamente questo. “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”. Cosi affermava George Bernard Shaw, uno che si è sentito dire spesso di aver creato un commentario contro la disperazione e la stupidità, provando ad elevare l’uomo sociale. A volte come elogio, a volte come critica.
Il calcio è esattamente questo, la faccia dei suoi protagonisti, non solo nei 90 minuti. Cade la narrativa che è stata fatta del calcio stesso negli anni. Un piccolo circolo di gentiluomini in calzettoni e parastinchi. E che cosa lasciano questi episodi? La verità è che non può esservi una risposta univoca perché, in fondo, ogni persona decide cosa trarre da queste vicende. Di certo c’è che è venuto meno il diversivo dei tifosi come colpevoli, come guerrieri del male pronti a macchiare qualcosa di immacolato. E in un dibattito come quello odierno, dove ogni opinione finisce in un tritacarne mediatico, coadiuvato dalla rapidità concettuale dei social, forse, è meglio semplicemente sedersi, osservare e riflettere. Porte chiuse e bocche spalancate, colme di rabbia, colme di… essenza dell’animo umano. Ma, dopotutto, erano spalancate già da prima, solo che ora non hanno qualcuno a cui ‘cedere’ la propria responsabilità. La sola cosa certa che probabilmente lasciano questi episodi è che, forse, bisognerebbe ripartire dai pensieri che dovrebbe esprimere il calcio, in un senso o nell’altro. “I pensieri muoiono nel momento in cui prendono forma le parole”. Arthur Schpenhauer.