Papà Francesco ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni della Gazzetta dello Sport, dedicandosi a una riflessione sul mondo del calcio e al ricordo eterno di Diego Armando Maradona.
“D bambino andavo allo stadio El Gasometro con la mia famiglia. Ricordo il campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo. Il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un pata dura, gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte”.
“Lo sport è tutto ciò che abbiamo detto: fatica, motivazione, sviluppo della società, assimilazione delle regole. E poi è divertimento: penso alle coreografie negli stadi di calcio, alle scritte per terra quando passano i ciclisti, agli striscioni d’incitamento quando si svolge una competizione. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di appartenere a una squadra. In qualche modo lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di fede sportiva”.
“Ho incontrato Maradona in occasione di una partita per la Pace nel 2014: ricordo con piacere tutto quello che Diego ha fatto per la Scholas Occurrentes, la Fondazione che si occupa dei bisognosi in tutto il mondo. In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli. Era anche un uomo molto fragile. Ho un ricordo personale legato al Mondiale ’86, quello che l’Argentina vinse proprio grazie a Maradona. Mi trovavo a Francoforte, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccogliendo materiale per la mia tesi. Non avevo potuto vedere la finale e seppi soltanto il giorno dopo del successo dell’Argentina sulla Germania, quando una ragazza giapponese scrisse sulla lavagna «Viva l’Argentina» durante una lezione di tedesco. La ricordo come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condividere la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo, mentre ciò che rende bella la gioia è poterla condividere. Quando mi è stato detto della morte di Maradona, ho pregato per lui e ho fatto giungere alla famiglia un rosario con qualche parola personale di conforto”, ha concluso Papa Francesco.