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Il 2 ottobre del 1935, in Argentina, nasce Enrique Omar Sivori. Come tutti i ragazzi dell’epoca dotati di un certo talento, finisce al River Plate. Sin da giovanissimo, si intuisce molto del giocatore che sarà: innamorato della palla, ma anche tremendamente concreto, testa calda e fantasia. In Nazionale, insieme ad Angelillo e Maschio, completa un trio passato alla storia come gli “angeli dalla faccia sporca”. Un mix di grinta e classe cristallina che trascina l’Argentina alla conquista della Copa America del 1957.

In quell’anno, Angelillo finisce all’Inter, e Sivori alla Juventus, che lo paga 180 milioni di lire, soldi che il River Plate userà per ampliare lo stadio. La presentazione, il 12 giun, è uno spettacolo: con la 10 sulle spalle, fa tre giri di campo palleggiando, lasciando i tifosi a bocca aperta. È solo l’antipasto di quanto vedranno in campo. In coppia con Charles, la sua antitesi calcistica, riporta lo Scudetto a Torino dopo sei anni. Uno anarchico e “cabezòn”, l’altro gigante gentile e dai piedi buoni, insieme segnano 50 reti: 22 Sivori e 28 Charles. Senza dimenticare Boniperti, che si muove alle loro spalle.

L’anno successivo Sivori segna meno, 15 reti, e la Juventus non va oltre il quarto posto. Una delusione riscattata la stagione seguente, che “el cabezòn” chiude con 27 reti, molte delle quali nelle partite chiave della stagione, tra cui le vittorie sulle dirette concorrenti Inter e Milan. Mette in bacheca il secondo Scudetto in bianconero, al termine di una cavalcata senza storia.

Nella stagione 1960/61 arriva anche il terzo alloro, uno dei più polemici della storia della Serie A. Alla 28° giornata si incontrano Juventus e Inter: al Comunale un’invasione di campo porta all’interruzione della gara. Il giudice sportivo assegna al vittoria a tavolino all’Inter, ma il ricorso della dirigenza juventina viene accolto, e la partita si rigioca. La decisione irrita i nerazzurri che, provocatoriamente, mandano in campo la Primavera del giovane Mazzola. Finirà 9-1, con 6 reti di Sivori, che chiude a 28 reti e alla fine dell’anno conquista il Pallone d’Oro. All’epoca riservato ai soli calciatori europei, il premio prende in considerazione anche gli oriundi, come Sivori, che nel frattempo è stato naturalizzato italiano.

Con la Nazionale italiana, tra il 1961 e il 1962, giocherà 9 incontri, segnando 8 reti, ma nel Mondiale cileno non lascia il segno, e gli Azzurri non superano i gironi.

Resta a Torino altre quattro stagioni, senza più tornare a vincere lo Scudetto. Continua ad incantare, perché come dirà Gianni Agnelli: “Sivori è un vizio”. Capace di regalare gol meravigliosi e momenti di vera follia, che gli costeranno, nella sua lunga permanenza italiana, 33 giornate di squalifica complessive.

La fine dell’idillio arriva nel 1965, al termine della prima stagione di Heriberto Herrera sulla panchina della Juventus. L’allenatore paraguayano ha la balzana di intrappolare Sivori dentro schemi rigidi, pretendendo che aiuti il resto della squadra anche in fase difensiva. Un affronto, per chi della libertà e della fantasia, ma anche dell’irrisione dell’avversario e della volontaria indisciplina tattica, ha fatto la propria cifra calcistica dalla prima volta che ha toccato un pallone.

Finisce al Napoli, squadra assai ambiziosa all’epoca, dove trova José Altafini, prelevato dal Milan. I due in campo si trovano a meraviglia, fuori, come racconterà anni dopo il brasiliano, pure. Saranno tre anni, sotto la guida di Pesaola, in cui Sivori con i partenopei lotterà per lo scudetto, senza raggiungerlo mai. Il finale di carriera, è il paradigma dei suoi peggiori vizi: contro la Juventus, viene marcato strettissimi da Favalli. Che lo tartassa di falli, anche provocatori. El cabezòn, che tiene fede per l’ennesima volta al suo soprannome, casca nel tranello e rifila un calcione a Favalli. Arriva la squalifica, l’ennesima, di sei giornate.

L’età è quella che è, le motivazioni scemano, e Sivori dice basta. Lascia il calcio giocato e torna in Argentina, con la Juventus nel cuore (la sua tenuta si chiamerà “Vecchia Signora”, ndr), ed una carriera da allenatore neanche lontanamente paragonabile a quella di calciatore. Geniale, imprevedibile, talmente avanti che il suo calcio, forse, sarebbe attuale ancora oggi, pur nell’insolenza e nella pigrizia del “10”.