Diego Armando Maradona nasce a Lanùs, in Argentina, il 30 ottobre 1960. A dieci anni, entra nelle giovanili dell’Argentinos Juniors, con cui, a nemmeno 16 anni, esordisce nel massimo campionato argentino. Dieci “naturale”, per caratteristiche tecniche e libertà tattica, con i piedi fa, letteralmente, quello che vuole. Dribbla, segna, regala assist geniali, e nel 1979 e nel 1980, conquista per due volte consecutive il Pallone d’Oro Sudamericano. Nel 1980 il Boca Juniors fa follie per portarlo alla Bombonera, dove resterà una sola stagione. Al termine del Mondiale di Spagna ’82, infatti, viene ufficializzata la sua cessione al Barcellona, per 12 miliardi di vecchie lire. Soldi che il Boca, che avrebbe dovuto riscattare Maradona, non aveva.
Archiviato il suo primo Mondiale, con la cocente sconfitta 3-1 per mano del Brasile, per El Pibe de Oro inizia l’avventura europea. Un’epatite, però, lo tiene a lungo lontano dai campi, e alla fine della stagione il suo contributo sta principalmente nelle Coppe. In Copa del Rey le sue prestazioni sono fondamentali, specie nella finale vinta contro il Real Madrid. In campionato arriva un deludente quarto posto, ma nel 1983 sulla panchina del Barcellona arriva Menotti.
Tutto sembra andare per il meglio, ma è una speranza effimera. Alla quarta di campionato, a Bilbao, il difensore dell’Atletic Goikoetxea entra malissimo su Maradona, che esce in lacrime. Ci vorranno mesi per tornare in campo, e comunque non basteranno i suoi gol per evitare ai catalani un altro piazzamento deludente. Va male anche in Coppa delle Coppe, con la rimonta subita dal Manchester United ai quarti di finale. Ma ancora peggio va in Copa del Rey, dove il Barcellona incrocia di nuovo l’Atletic Bilbao: vincono i baschi, la partita finisce in rissa, e intorno a Maradona l’aria si fa irrespirabile.
Nell’estate del 1984, così, il presidente del Napoli, Corrado Ferlaino, fiuta l’affare: Maradona arriva al San Paolo per 13 miliardi di lire, che i partenopei pagheranno solo negli anni successivi. La città è in delirio, la presentazione un evento mai visto prima su un campo da calcio per nessun giocatore al mondo. A Napoli, Maradona ritrova esattamente ciò che aveva lasciato in Argentina: l’amore incondizionato della gente, la benzina di cui ha bisogno il suo smisurato, quanto fragile, talento. Il Napoli, all’epoca, non era certo squadra di alta classifica, la stagione precedente aveva chiuso all’undicesimo posto, e nonostante Maradona, nel 1985 finisce ottavo. Maradona però è solo il primo pezzo di una squadra in continua evoluzione e costruzione, che l’anno successivo azzera, o quasi, il gap con le prime. I gol e le giocate del Dies portano il Napoli al terzo posto, a sei punti dalla Juve Campione d’Italia.
In estate, un Maradona ormai leader in campo della Nazionale argentina, porta i suoi al trionfo mondiale. La sua doppietta contro l’Inghilterra vale un trattato di storia del calcio (e di politica internazionale), e le due reti al Belgio in semifinale spalancano alla Albiceleste le porte della finale di Città del Messico. In quel momento, senza grossi dubbi, è il giocatore più forte al mondo, e poco importa se contro la Germania Ovest non trova la rete. L’Argentina vince comunque, 3-2, e per Diego il gol non è mai stata un’ossessione. Del resto, è un fantasista, non un centravanti, e segnare o far segnare, fa poca differenza.
Raggiunto il tetto del mondo, torna a Napoli con un obiettivo: portare al San Paolo lo scudetto, il primo. Il Napoli sfata tutti i tabù, batte la Juventus a Torino e, il 10 maggio 1987, battendo la Fiorentina, si aggiudica aritmeticamente il titolo. Pochi giorni dopo arriva anche la Coppa Italia, per un’accoppiata riuscita, fino ad allora, solo a Torino e Juventus. La stagione successiva, il Napoli sembra destinato a bissare il successo, ma perde quattro delle ultime cinque di campionato, e finisce secondo alle spalle del Milan, nonostante i 15 gol di Maradona, per la prima volta capocannoniere della Serie A. Anche la stagione 1988/1989 finisce al secondo posto, ma lontanissimo dall’Inter dei record, e qualcosa, tra Maradona e la città, scricchiola. In estate sembra tutto fatto per il suo trasferimento a Marsiglia, ma Ferlaino lo convince a restare un’altra stagione.
Che, finalmente, porta a Napoli il secondo scudetto, al termine della stagione 1989/1990. Sotto la guida di Bigon, Maradona, dopo un inizio stentato, segna 16 reti in campionato, e si presenta al Mondiale di Italia ’90 come la stella da battere, ancora una volta. Non ha fatto però i conti con la crescente impopolarità di cui “gode” fuori da Napoli, tanto che nella finale dell’Olimpico, di nuovo contro la Germania, quasi tutto lo stadio fischia polemicamente l’inno argentino. Per Maradona è uno smacco, quasi più della sconfitta, decisa da un rigore dubbio e contestato, al culmine di una partita brutta e nervosa. L’ultima stagione italiana è solo una sofferenza, cui pone fine, a marzo del 1991, un controllo antidoping: Maradona è positivo alla cocaina, e starà lontano dai campi per un anno e mezzo.
Scontata la pesante squalifica, nel 1992 riparte dal Siviglia, in Liga, dove resta appena una stagione, condita da 5 reti e 12 assist. Nel 1993 torna a casa, in Argentina, prima ai Newell’s Old Boy, poi dopo qualche mese di inattività, al Boca Juniors. Scampoli di una carriera ormai al tramonto, chiusa definitivamente nel 1998, con un solo lampo: il Mondiale di Usa ’94, a cui Maradona si presenta incredibilmente in forma, ma è un sogno fragile, interrotto da un altro controllo antidoping. Tutto ciò che accade dopo, non ha molto a che vedere con il calcio, e di certo, non è neanche paragonabile alla luce accecante che ha illuminato Napoli e non solo per tanti anni.