Lukaku-Ibrahimovic: il peso delle parole
La vittoria dell’Inter, all’ultimo respiro, nel derby di Coppa Italia che ha spinto i nerazzurri in semifinale, è già passata in secondo piano. Un peccato, perché la partita ha regalato spunti tecnici interessanti, belle giocate, tanto agonismo. Ecco, troppo agonismo. E alla fine, ciò che resta non è la punizione capolavoro di Eriksen al 96′, ma lo spettacolo indecente di fine primo tempo. Il teatrino, svilente, tra due colossi, Romelu Lukaku e Zlatan Ibrahimovic. Che, come si dice in questi casi, non se le sono mandati a dire. Purtroppo, viene da aggiungere. Premessa: l’escalation è “merito” di entrambi, le colpe, sul campo, andrebbero equamente distribuite tra i due.
L’uso del condizionale, però, è d’obbligo. Da ieri sera, i social network sono stati invasi da insigni anglofoni, fini antropologi e storici del calcio, in una originale rincorsa al giustificazionismo a tutti i costi. Al centro di tutto, non è neanche il caso di ricordarlo, le parole di Ibrahimovic, che dal suo ritorno in Italia, è assurto al ruolo di eroe positivo. E per questo intoccabile. Anche quando passa il segno. Da ore si dibatte sul fatto che “donkey” vuol dire asino, mica scimmia (“monkey”). Ergo, le parole di Zlatan non hanno un benché minimo sentore di razzismo. Fine della storia. Come se il resto (“Vai con tua madre a fare quelle cagate di riti voodoo”) non contasse.
Soffermarsi su una parola, e derubricare il tutto a normali screzi di campo, non fa onore a nessuno. Non a Ibrahimovic, ma neanche ai tanti che, stamattina, le provano tutte per giustificarne il discutibile frasario. Fare riferimento alle origini congolesi della madre di Lukaku, in maniera offensiva, è una forma di razzismo. E non siamo noi a doverlo dire, perché a decidere se un’espressione sia o meno razzista, è chi da essa viene colpito. Non è troppo differente da chi chiama “zingaro” chiunque arrivi dall’Est Europa, o dagli americani che davano del “mangiaspaghetti di merda” a qualsiasi immigrato italiano solo qualche decennio fa. Di fondo, c’è il pregiudizio, l’offesa facile frutto dell’ignoranza, in cui è insito il gene del razzismo.
E questo non vuol dire che Lukaku non abbia i suoi torti, e belli grossi. Ciò che dice a Ibra, mettendo in mezzo minacce fisiche, madri e quant’altro, è un concentrato di violenza verbale da far rabbrividire anche il più scafato dei difensori Uisp. Una roba francamente indecente, indifendibile. Ma cercare la via dell’equilibrismo, in una situazione così, serve a poco. Dire che hanno torto entrambi è pleonastico, e non sgrava il milanista dalla gravità delle sue parole.
Pare che, negli spogliatoi, si sia scusato con i compagni, sostenendo che non si trattasse di insulti razzisti. E noi gli crediamo, la storia parla per lui. Solo che, lo ribadiamo, non è lui a doverlo stabilire. Scusarsi pubblicamente, ben consapevole del suo ruolo e della sua esposizione mediatica, cui deve in toto la sua fortuna, gli farebbe onore. Meglio ancora se insieme allo stesso Lukaku, che, è giusto ribadirlo, ieri sera ha dato il peggio di sé. Il conto, alla fine, come sempre, lo paga il calcio italiano, in debito di credibilità internazionale da un po’. E Da ieri ancora di più, perché in un mondo che ha fatto della lotta al razzismo una ragione di vita, un diverbio come quello di ieri sera andrebbe solo che stigmatizzato.