La Champions League e il grande assente (o quasi): il fattore campo
Con le partite giocate mercoledì (Atalanta-Real Madrid 0-1 e Borussia Monchengladbach-Manchester City 0-2) è andata in archivio l’andata degli ottavi di finale della Champions League. Dando uno sguardo ai risultati c’è un dato che balza agli occhi: sette partite su otto sono state vinte dalle squadre che giocavano in trasferta. L’unica eccezione, purtroppo per i colori italiani, è rappresentata dalla sconfitta della Juventus in casa del Porto per 2-1.
Al di là di risultati ampiamente preventivabili per i valori in campo o di polemiche legate agli arbitraggi, sulle quali non si vuole certo tornare in questa sede, è evidente come il dato precedentemente citato sia la diretta conseguenza di una grande assenza, quella del fattore campo.
Il Covid, che purtroppo dopo un anno ancora è tra noi, ha svuotato gli stadi facendo venir meno il fattore campo. Il pubblico, detto in altri termini, non è stato il dodicesimo uomo in campo, per parafrasare un’espressione molto di moda tra i giornalisti sportivi nell’era pre-Covid. E così il “Wanda Metropolitano” non ha potuto trascinare l’Atletico Madrid contro il Chelsea, così come il “Ramòn Sanchez Pizjuan” non è stato un’arma in più per il Siviglia battuto dal Borussia Dortmund. Allo stesso modo, proiettandoci già alle partite di ritorno, la Juventus non potrà contare sulla spinta del suo pubblico per provare a bissare contro il Porto quell’impresa riuscitale due anni fa contro l’Atletico Madrid.
La pandemia, insomma, ha cancellato quasi del tutto il fattore campo. Uno scenario, però, tanto triste quanto inevitabile. Nella speranza che non se ne abbiano a male i romantici, il Covid ci ricorda ogni giorno una verità incontestabile: il calcio a porte chiuse non piace affatto, ma in queste condizioni è il solo possibile.