Juve e Lazio, il fattore spagnolo illumina la Champions
Uno è entrato di prepotenza nel tabellino a fine gara, l’altro no, ma poco importa. In comune, a parte il fatto di essere entrambi spagnoli ed entrambi classe 1992, non hanno davvero nulla. Uno è Alvaro Morata, attaccante tornato alla fine del calciomercato alla Juve con il difficile compito di sostituire in campo Higuain, e nei sogni estivi Luis Suarez. L’altro è Luis Alberto, oggetto misterioso di un mercato della Lazio anonimo di qualche anno fa, e oggi tra i migliori assistman in Europa.
Sono loro ad aver firmato i successi della Juventus a Kiev contro la Dinamo e della Lazio a Roma contro il Borussia Dortmund di Haaland e Sancho. Facendo, sostanzialmente, né più né meno di ciò che hanno sempre fatto. Intendiamoci, Morata non è mai stato, e difficilmente lo diventerà, un attaccante da trenta reti a stagione. Ma ha la capacità di essere decisivo quando serve, di non tremare, e nella sua prima parentesi juventina l’aveva già dimostrato. Segnando in due stagioni 7 reti in 20 partite di Champions League, contro le 15 in 63 di Campionato.
Quando si alza il livello, il classe 1992 di Madrid c’è: anche quando è tornato al Real, e nella sua ultima stagione all’Atletico, la media in Champions League è stata di un gol ogni tre partite. Le due reti di ieri hanno da una parte riscattato la partenza grigia dei bianconeri in Serie A, dall’altra dimostrato che si può giocare bene (meglio?) anche senza Cristiano Ronaldo.
Vecchio problema, mai superato, né da Allegri né da Sarri, quello della dipendenza dalla stella portoghese. Su cui deve necessariamente essere incardinato il gioco juventino. Anche se il lavoro tattico che fa Morata per la squadra, al di là dei gol, ha un impatto difficile da quantificare, ma ben visibile. La Juve ieri ha convinto, e Morata in questo ha avuto un ruolo fondamentale.
A Roma, appena terminata la partita di Kiev, è scesa in campo la Lazio, contro l’avversario più temibile del proprio girone, il Borussia Dortmund dei giovani più promettenti del calcio europeo. Gli uomini di Inzaghi non vengono da un grande momento, tra infortuni e risultati altalenanti in campionato che hanno rischiato di rovinare l’armonia, sempre più fragile, dei mesi scorsi.
Ecco, la Lazio, con l’eccezione di Milinkovic-Savic – che però ormai è un centrocampista maturo – non ha giovani fenomeni in rampa di lancio. Ma ottimi giocatori, costruiti a volte dal nulla, o comunque da premesse che tutto avrebbero lasciato immaginare, tranne che ritrovarsi in rosa alcuni dei giocatori più performanti del campionato. Da Acerbi, tra i migliori difensori in circolazione, ad Immobile, che in biancoceleste ha segnato caterve di reti.
La vera sorpresa, però, è Luis Alberto. Nel 2016, quando arrivò a Roma, fu accolto da un comprensibile scetticismo. Dopo anni anonimi, passati tra Siviglia, Barcellona, Liverpool e Malaga, aveva fatto vedere qualche lampo di talento con la maglia del Deportivo. Abbastanza da abbagliare Tare. Che, però, lo presenta come il sostituto di Candreva. Il Mago, in effetti, dell’esterno non ha nulla, e il primo anno in biancoceleste fu talmente duro da pensare di smettere con il calcio, ad appena 25 anni.
L’avvento sulla panchina di Simone Inzaghi è stata la svolta felice di una carriera destinata a sbocciare tardi. Nel 3-5-2, da interno sinistro con licenza di fare un po’ ciò che vuole, porta la fantasia, mai fine a se stessa e sempre ragionata, al potere. E, soprattutto, al servizio dei fortunati compagni di squadra. Ieri sera, nel 3-1 sul Borussia Dortmund, c’è il suo zampino sul secondo gol. Non tanto e non solo perché batte alla perfezione l’angolo che spiove tra Luiz Felipe e Hitz. Ma soprattutto perché il corner arriva dopo che il portiere dei tedeschi ha salvato su Correa innescato, guarda caso, da una magia di Luis Alberto.
Che pochi minuti dopo “rischia” il gol direttamente da calcio d’angolo. Qualità, che non trova spazio nella nazionale spagnola, e nemmeno troppo sui quotidiani, ma che nell’economia del gioco della Lazio ha un impatto enorme. Per chiarimenti, chiedere a Immobile. Alla fine dei conti, ciò che divide il Ciro visto in Nazionale da quello in formato laziale, ha un nome: Luis Alberto.