Il 2020 è stato un annus horribilis, completamente da dimenticare, fatto di poche speranze e soprattutto sofferenze. Un anno che ci auguriamo possa assumere il valore di un incubo, dal quale primo o poi ci sveglieremo.
Oltre quanto accaduto al mondo intero, c’è chi si è disperato, da appassionato, anche per ciò che ha vissuto il calcio. Un calcio diverso, senza tifosi sugli spalti e senza quell’antico sapore di uno sport che unisce, che ci fa sentire più uguali, più vicini, più vivi.
Un calcio al quale, tra l’altro, hanno detto addio troppi giocatori che hanno caratterizzato i nostri ultimi entusiasmanti anni di tifo e che avevano preso in ostaggio grandi pezzi dei nostri cuori. Giocatori unici, non tanto per la cifra tecnica, ma per leadership e carisma, per essere personificazione di quei valori che tanto ci scaldano e che troppo spesso vediamo offesi. Hanno detto addio tanti uomini, coi loro pregi e difetti, a noi cari, più che dei semplici rappresentanti del nostro sport preferito.
Abbiamo speso lacrime per Daniele De Rossi, per Leighton Baines, Aritz Aduriz, David Villa, Fernando Gago e Iker Casillas.
Poi, come se non bastasse, in piena notte, dall’Argentina, hanno risuonato queste parole: “Voglio annunciare che mi ritiro dal calcio, voglio ringraziare questo club che mi ha dato l’opportunità di finire la mia carriera in Argentina”. Le ha pronunciate Javier Mascherano e ha salutato per sempre l’Estudiantes, e il calcio in generale.
Il Jefe o Jefecito che va via. Fu già dura vederlo volare verso una meta esotica, la Cina, l’Hebei, quando capii di non poter dare più al Barcellona l’apporto necessario, quello che aveva sempre assicurato. In Cina ci è rimasto giusto un anno per ritornarsene in Argentina, all’Estudiantes per l’appunto.
Sono stati tanti gli aerei presi da Javier, che ha camminato e ha impressionato il mondo in lungo e in largo. Pensare che da ragazzo aveva una sola fobia: volare. Lo avrebbe fatto per tutta la vita, lo avrebbe fatto, a dispetto della sua altezza, anche sulle teste degli avversari, grazie ad un’esplosività nelle gambe che gli ha sempre permesso di andare oltre, più in alto o più a lato, o più forte.
Forte almeno quanto la passione che si vive per il calcio a San Lorenzo, la città dove l’8 giugno 1984 è nato il Jefe, il “capo”, perché da ragazzino era già chiaro che la statura non avrebbe fatto l’uomo. Mascherano era un leader sin da piccolo. Mascherano era tutto sin da piccolo e tutto avrebbe potuto fare, in qualsiasi ruolo, in qualsiasi porzione del campo. Non a caso nelle giovanili dell’Alianza giocava da attaccante, era veloce e segnava. Ma il padre gli diede il consiglio della vita: “Gioca centrale, da mediano, hai una visione che non ho visto mai in nessuno ragazzino”.
Da mediano si conquistò l’interesse del River Plate, catturò l’attenzione di tutto il club dei Milionari e nel 2003, a nemmeno vent’anni, dovettero dargli la prima squadra. Maradona, non uno qualsiasi, parlando dei migliori under 21 argentini disse di lui: “Mascherano è un mostro, uno dei giocatori più interessanti della generazione attuale. Un ventenne con la saggezza e la maturità di un trentenne”. Era già uno deciso.
Deciso devi esserlo, se da argentino decidi di trasferirti in Brasile, un Paese che non ama quelli della Terra del Fuoco. E dovettero ricredersi, almeno riguardo lui, i tifosi del Corinthians: cominciarono ad amarlo sin da subito. Amavano lui e Tevez. Lui e Tevez che insieme arrivarono e insieme partirono per l’Inghilterra, destinazione West Ham. El Jefe era già titolare in nazionale maggiore, ma Pardew non gli trovò una collocazione tattica, strano per chi già padroneggiava la tattica, chi la comandava.
Uomo dal grande acume tattico, almeno dalla panchina, era Rafa Benitez e non poteva non accorgersi di quell’argentino. Lo volle al Liverpool, nonostante a centrocampo avesse Sissoko, Xabi Alonso e Gerrard. Javier, che non era, come abbiamo detto solo un ragazzino, non era convinto, non bastava l’entusiasmo della chiamata di una big per convincerlo ad accettare. Aveva un interrogativo maturo: in quell’organico “quando giocherò?”. Giocherà sempre, perché per Rafa poteva esserci chiunque in rosa, e chiunque non avrebbe potuto dare alla sua squadra più equilibrio di quel centrocampista lì: Javier Mascherano, di cui tutto il mondo avrebbe cominciato a parlare.
Le chiacchiere divennero pesanti nel 2010, perché le voci si concretizzarono: il Barcellona lo strappò agli inglesi. Il centrocampista argentino andava a giocare nelle squadra più forte del globo, adesso voleva vincere, sentiva di meritarlo per quanto dava in campo.
Ma quello era il Barcellona di Guardiola, quello del tiqui-taca. Guardiola non lo voleva per la sua tecnica, la tecnica sovrabbondava, lo voleva per il suo valore umano. Valore umano che permise a Javier di mettere se stesso all’ombra del suo ruolo di team player per tutta la permanenza in blaugrana.
Arrivò da centrocampista e per sette anni avrebbe giocato fuori ruolo, da centrale di difesa. Davanti alla difesa c’era Busquets e allora Javier non serviva, serviva più dietro, non per i piedi, non per la visione, ma per la condotta. El Jefe diventava condottiero, baluardo blaugrana. Ha vinto 18 titoli con quella maglia, tra cui due Champions League e due coppe del Mondo per club.
Per un club, o per la nazionale albiceleste, Mascherano ha dato sempre tutto ed è stato grande per questo. Si è sacrificato senza mai subirne il peso. Perché il sacrificio è sempre stata una questiona naturale per lui, quasi un compito da assolvere, per sua stessa ammissione.
Ed è stato attaccato spesso Javier, soprattutto dopo l’addio di Guardiola, perché dopo quel Barcellona, che era stata la squadra dei più grandi palleggiatori del mondo, divenne la squadra che puntava tutto sul tridente più forte del mondo: Messi-Suarez-Neymar. Parallelamente il nuovo Barcellona metteva il suo equilibrio difensivo tutto nelle mani, o meglio, nelle intenzioni dei suoi due centrali: Piqué e, per l’appunto, Mascherano.
Mascherano che ha costruito, per indole e bruta esigenza, le sue vittorie e quelle del suo club sul valore di garra, sulla figura del guerriero che estremizza il concetto di agonismo. Il suo bagaglio tecnico è stato messo in soffitta per la necessità di recuperare semplicemente palloni, sbandierando il manifesto di personalità totale che per lunghi tratti ha racchiuso l’intero spirito del calcio argentino.
E, allora, il Jefe è stato questo, soprattutto. Un combattente, un uomo dotato di caratteristiche psicofisiche al limite del sovrumano. Ha portato allo strenuo quelle abilità funzionali umane che sono la velocità, la forza, l’intelligenza, la logica, l’intuizione. È stato il principe dell’anticipo, il capo. Destinato, sin da bambino, a conquistarsi l’olimpo dei calciatori più rappresentativi della storia della sua nazione e del suo tempo. Avrebbe dovuto farlo da mediano, ma si è adattato e lo ha fatto da centrale di difesa. La storia ci ha insegnato che a sopravvivere è chi sa adattarsi, si chiama selezione naturale. El Jefe lo ha fatto e resterà ai nostri occhi come una delle più forti e belle specie di calciatore che abbiamo avuto il piacere di conoscere.
Adiòs Javier.