La crisi porta a mondi inesplorati, ma quando valorizzeremo il nostro?
“C’è la crisi”. È una frase che è entrata nelle comunicazioni moderne, con la stessa frequenza con cui si critica il meteo. C’è la crisi. Sì, c’è. La più devastante dal secondo dopo guerra, pare. Questa pandemia ha messo in ginocchio tutti, sotto molteplici aspetti. Mentre il mondo si affretta a produrre il vaccino, tutto sembra collassare. Il sistema economico, la caratura etica dei popoli, i principi di solidarietà. Tutto crolla. O meglio dire, tutto brucia, metaforicamente. E, rifacendosi ad un antico proverbio: “Il fumo nel cuore manda fumo nella testa”. Il mondo del pallone non è da meno e, di fumo, ce n’è tanto. Nelle parole, nelle scelte, nei dietrofront intellettuali. Ma soprattutto, ancora una volta, nell’incorrere nel problema ricorrente da anni. Quando si sceglierà di nuovo di valorizzare il nostro calcio? Il nostro piccolo mondo. La crisi morde, fa male, e conduce a vie alternative. I club, consci di non poter più puntare sulle spese onerose, percorrono la via dei giovani. Anche le vie dei giovani sono infinite ma, pare, che nemmeno questa volta porteranno in Italia.
Percorsi innovativi e vecchi assi
E si ricade lì. Sempre lì. Perché il calcio italiano è una reliquia, la sua storia è, parallelamente, la storia del calcio stesso. Lo si ricorda sempre. Guai a chi tocca il calcio italiano, guai a chi critica. Ma poi, nel riscontro empirico, chi difende davvero il calcio italiano? Chi cura davvero il germoglio del calcio in Italia? Ossia i giovani. Pochi, davvero pochi. I club si riscoprono esploratori, e così si va a cercare giovani promettenti negli Stati Uniti. Reynolds, McKennie per esempio. C’è chi va anche in Norvegia, dove scova un talentino come Hauge. Qualcuno bussa in Spagna, qualcun altro in Scozia, anche in Francia recentemente. Si sta riattivando anche il flusso dal Giappone che, tra gli anni ’90 e 2000, ha portato bei giocatori come Miura, Nakata, Nakamura, oggi impersonati da Tomiyasu e Yoshida. Mica male anche questi danesi, come Damsgaard per esempio. Che dire dei polacchi come Walukiewicz? Nulla da dire, bei prospetti. Ma quando toccherà all’Italia e ai suoi giovani?
Nuovo corso italiano
Si parlava di frasi ad effetto, o di motti di spirito comuni. E quindi, dopo il refrain “C’è la crisi”, si può riproporre anche: “Il calcio dia l’esempio”. Sì ma che esempio? Per carità, qualche giovane italiano lo si vede ancora a certi livelli: da Tonali a Zaniolo, da Calafiori ad Esposito. Da Donnarumma a a Locatelli, passando anche per Lovato ecc. Poi si cade sempre nello stesso bivio. Un bivio che, però, non ha una strada giusta. Perché se una via porta alla “preferenza estera”, l’altra porta all’arrivismo di certi presidenti che, di fronte ad un buon giocatore, scelgono di rovinargli la carriera, affibbiandogli valori di mercato fuori da ogni logica. Così gli epiloghi non hanno mai un lieto fine: o paghi 50 milioni per un giocatore che, di fronte a tale valutazione, non potrà usufruire del diritto di sbagliare. Oppure resta lì, non alza il livello e, forse, a 27/28 anni, si può riscoprire un giocatore valido, purtroppo però, quando è troppo tardi. E allora il calcio dia davvero l’esempio. Non con retoriche iniziative da rossetto sulla guancia. Neppure con assurdi proclami demagogici, che fungono da pane per i ciechi di rabbia.
Si punti sull’Italia davvero, mettendo da parte ciò che ha creato l’uomo, per valorizzare, più semplicemente, l’uomo. Perché lo slogan “credere nei giovani in Italia” sia realtà, progetto, strategia. E allora davvero, questa volta, in questo contesto che sia il calcio a fare da guida, per riportare in auge il proprio piccolo mondo, senza barcamenarsi in mondi inesplorati. Dicono che la crisi sia un’opportunità. Quante opportunità per l’Italia, verrebbe da dire. Basta che non venga sprecata anche stavolta. Magari può far comodo, a questo punto, ricordare una frase dell’ex tecnico della Juve Max Allegri: “Se vogliamo vedere qualche ragazzotto che sa ‘giocà’ a calcio e che tira la palla all’incrocio dei pali, di solito bisogna farlo ‘tirá n’ porta’”. Semplice.