L’esistenza di molti di noi, quasi tutti, è stata caratterizzata, fin dall’infanzia, dal più classico dei dualismi familiari. L’eterna rivalità con il cugino/a bravo a scuola, abile musicista (tendenzialmente pianista), ben curato nell’aspetto e nei modi, circondato da amici noiosamente identici, quasi fossero delle fotocopie.
Di contro il cugino/a pericolosamente altalenante nei giudizi scolastici, habitué dello sporcarsi le mani e le ginocchia giocando per strada, con un’innata propensione a cacciarsi in piccoli guai e con un “melting pot” di frequentazioni da far impallidire i benpensanti.
Chi non si è mai immedesimato nelle isteriche sfortune e frustrazioni quotidiane di Paperino, contrapposte al destino favorevole di Gastone, talmente sfacciato da risultare arrogante?
Quale adolescente brufoloso e ricoperto di forfora non ha simpatizzato per i “rubbish” Oasis o Blur, contraltare dei pettinatissimi e artificiali Take That o Backstreet Boys?
Terminati i conti con la vostra infanzia/adolescenza, siete pronti per calarvi, più che consapevolmente, nella realtà e nelle atmosfere di Amburgo.
Capitale dell’economia tedesca, città-stato, insieme a Berlino e Brema, al cui interno si trova il più grande porto teutonico, il secondo in Europa dopo quello di Rotterdam.
Sede della Philharmoniker Hamburg, orchestra sinfonica tra le più famose nel mondo, nonché di uno dei più importanti centri mondiali per la ricerca sulla fisica delle particelle e di industria aerospaziale civile.
Musa ispiratrice anche nella letteratura, teatro del libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepulveda.
Tenuta in grande considerazione, nel corso della sua storia, da Imperatori quali Carlo Magno e Federico I detto il Barbarossa, fino ad assumere il rango di città libera dell’Impero con l’esenzione dal pagamento delle tasse doganali. Spirito nobile che va a braccetto con la medio-alta borghesia.
Anche la tradizione calcistica di Amburgo rappresenta appieno le caratteristiche aristocratiche e snob della città.
L’Hamburger Sport-Verein è stato il primo club calcistico ad essere fondato in Germania ed è tuttora tra i più blasonati della Bundesliga, carnefice della Juventus nella finale di Coppa dei Campioni del 1983.
Talmente orgoglioso e arrogantemente fiero del proprio prestigio, da aver installato nel proprio stadio un orologio, avente l’unico scopo di stordire l’avversario di turno con lo scoccare del tempo trascorso consecutivamente in Bundesliga – unico club ad aver giocato 55 campionati di fila nella massima serie tedesca.
Tuttavia, come in ogni famiglia che si rispetti, l’eleganza, la finezza e la signorilità del cugino secchione ricevono il guanto di sfida dall’anima plebea, aggressiva ed esuberante della scapestrata pecora nera.
Volgendo lo sguardo ad Ovest, nei pressi del porto, ecco che si para davanti agli occhi dello spettatore la figura del cugino ribelle, St. Pauli e i suoi 22.500 abitanti dall’anima trasgressiva.
Il quartiere nasce, quasi per caso nel XVII secolo, sulle macerie di un campo di artiglieria, meta dei commercianti tedeschi allontanati dal centro di Amburgo a causa dell’idiosincrasia dell’elite cittadina nei confronti dei traffici, forieri di rumori e odori insopportabili per chi ritiene di trovarsi in posizione apicale in una fantomatica scala di rango sociale.
Esattamente in questo periodo storico St. Pauli mutua la sua essenza anarchica. Col passare dei secoli viene etichettato come il centro del divertimento amburghese.
Comincia a portare le stimmate del luogo in cui qualsiasi rivoluzione può detonare la sua carica esplosiva.
Il movimento punk emette i primi vagiti proprio qui nell’ “Hamburger Berg”.
Non è catalogabile, quale mera casualità, la circostanza che la band che ha stravolto la musica leggera mondiale, i Beatles, celebra il proprio battesimo del fuoco nelle bettole di St. Pauli.
Il prestigioso The Guardian, nel 2012, inserisce questo meraviglioso quartiere nella lista dei cinque migliori posti al mondo in cui vivere.
Nel contesto appena descritto, stimolante all’inverosimile, il gioco del calcio trova terreno fertile per il suo rigoglioso attecchimento.
Nel 1910 viene ufficialmente fondato il club St. Pauli TV.
Anima e cuore non possono che essere le medesime degli indigeni del luogo.
La squadra naviga per la gran parte della sua esistenza tra la seconda e la terza divisione tedesca, in palcoscenici ben più spartani rispetto a quelli calcati dai cugini nobili e ricchi dell’Hamburger Sport-Verein.
Al pubblico di St. Pauli non importa vincere.
Il divertimento è il caposaldo della filosofia dei tifosi dallo spirito punk-anarchico, le fugaci apparizioni in Bundesliga non possono che ripagare ampiamente la passione di chi, per deformazione, contesta l’ordine costituito.
Nel suo percorso tortuoso il club sfiora addirittura la bancarotta a metà degli anni ’80.
Come spesso accade, però, è proprio questa sliding doors a trasformare il St. Pauli e la sua tifoseria in un fenomeno cult.
Tutto nasce dall’idea bizzarra di un dirigente buontempone che avanza l’ipotesi di trasferire lo Stadio a Reeperbahn, la zona a luci rosse, meta gettonatissima dell’underground notturno.
La fama del club, come d’incanto, travalica i confini nazionali.
Merito dell’improvvisa notorietà internazionale è da attribuire alla tifoseria del St. Pauli e al simbolo scelto dagli stessi per rappresentarli, il teschio con le ossa incrociate, il Jolly Roger, manifesto del dualismo ancestrale tra miseria e nobiltà, tra capitalismo e proletariato, logo ancora oggi identificativo.
Nelle gradinate del Millerntor Stadion si sprecano i vessilli cubani e quelli raffiguranti Ernesto Che Guevara.
A St. Pauli non si stancheranno mai di ripeterlo: il calcio è un pretesto, è il divertimento quello che conta.
Sulla scorta di questo diktat, agli albori degli anni ’90, la società prende una decisione coraggiosa per chi, spesso, è ostaggio dei gruppi organizzati del tifo. Viene bandito l’ingresso allo stadio dei gruppi di tifosi di estrema destra.
La decisione teoricamente potrebbe prestare il fianco a disordini, tentativi di boicottaggio, danni economici. Tutt’altro. Le presenze al Millerntor Stadion si decuplicano nel giro di dieci anni, segno che la strada del predicare divertimento è un buon viatico.
I supporter danno vita a numerose attività di beneficenza, con un occhio vigile a quello che accade al di là dell’Oceano. Viene istituita una raccolta fondi per l’acquisto di distributori d’acqua per le scuole di Cuba.
Si tenta, invano, di dare ossigeno alle casse del club tramite la vendita di magliette con lo stemma della squadra.
Nel frattempo, la letteratura sull’oasi calcistica felice di St. Pauli inizia a proliferare.
Troppo ghiotta da descrivere l’immagine del brutto anatroccolo che trova la sua dimensione ed il suo posto nel mondo.
I cugini poveri di Amburgo mietono proseliti internazionali di un certo livello.
Lo scrittore scozzese Irvine Welsh, che di realtà non propriamente lineari se ne intende avendole descritte nel capolavoro “Trainspotting”, si dichiara fan accanito del St. Pauli.
La squadra, nel frattempo, si concede perfino il lusso di arrivare in semifinale di Coppa di Germania nel 2006, eliminando Hertha Berlino e Werder Brema, prima di essere cannibalizzata dall’onnipresente Bayern Monaco. Per la seconda volta nella sua storia vince il derby con l’Hamburger Sport-Verein, nel frattempo decaduto dalla sua nobiltà e retrocesso in Zweite Bundesliga.
La vita, ogni tanto, permette a “Paperino” di vendicare gli innumerevoli secondi posti a lui riservati dall’eccessiva brillantezza del cugino “Gastone”.
St. Pauli non è semplicemente un quartiere, una squadra, un club. E’ un modo di vivere, anarchico, punk, senza pensieri. E’ l’esaltazione del “panta rei” di Eraclito.
E’ la dimostrazione che l’immagine è solo un involucro leggero da riempire.
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