In viaggio con CIP – Le Aquile di Città del Messico
Un’aquila che mangia un serpente in cima ad un cactus. Secondo la leggenda, nel 1325 fu questo segno divino, oggi riprodotto sulla bandiera messicana, ad indicare agli Aztechi il luogo in cui fondare la loro capitale: Tenochtitlán. La città, costruita sugli isolotti in gran parte artificiali del lago di Texcoco, crebbe in poco tempo raggiungendo un’estensione con pochi eguali nel mondo. Nonostante ciò, fu un centro incredibilmente efficiente, con una fitta rete di ponti, canali e strade per collegare gli isolotti, dove vivevano fra le 200.000 e le 250.000 persone.
Lo splendore di Tenochtitlán però durò poco. Nel 1519 il conquistador spagnolo Hernán Cortés sbarcò nell’odierno Messico, venendo inizialmente accolto con grandi onori dall’imperatore Montezuma II, che lo scambiò per la divinità Quetzalcoatl in base ad un’antica profezia. Due anni dopo Cortés conquistò Tenochtitlán, vincendo la strenua resistenza dell’ultimo sovrano azteco, Cuauhtémoc. La grande città venne completamente distrutta dagli spagnoli. Al suo posto fu costruita Città del Messico.
Popolata oggi da circa 9 milioni di abitanti, 20 milioni se si considera l’intera area metropolitana, Città del Messico è oggi il settimo centro più ricco del mondo, con un PIL nominale di 508 miliardi di dollari. Le rovine azteche del Templo Mayor, gli edifici coloniali, le chiese ed i numerosi grattacieli vanno a costituire un vivace mix architettonico in grado di affascinare il visitatore che, fra uno spuntino a base di nachos o tacos e una visita alla casa-museo della pittrice Frida Kahlo, si aggira per la città. A proposito di fascino, impossibile non citare quello folkloristico del día de los muertos, la celebrazione del ricordo dei defunti che si tiene tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre: travestimenti da scheletri, colori sgargianti, musiche e balli per le strade della capitale messicana sono le caratteristiche di una ricorrenza che ogni anno attira turisti da tutto il mondo.
Città del Messico ha un rapporto intenso con lo sport: sede delle Olimpiadi 1968 e dell’autodromo Hermanos Rodriguez, ha ospitato ben due finali dei Mondiali dei calcio (1970 e 1986). Lo stadio principale, lo Stadio Azteca, è un autentico tempio del calcio mondiale, teatro nel 1970 della “Partita del secolo” (Italia-Germania 4-3) e nel 1986 della Mano de Dios e del “Gol del secolo” (le due leggendarie reti di Diego Armando Maradona all’Inghilterra). All’Azteca è inoltre di casa il Club América. La sua ultracentenaria storia, ricca di successi, ne fa uno dei club più blasonati e prestigiosi dell’America centrale e settentrionale.
L’unione fa la forza
È il 1916 quando, grazie al boom del calcio nelle ex colonie spagnole, il pallone inizia a diffondersi presso le scuole di Città del Messico. Fra di esse vi è il Colegio Mascarones, dove studiano i tredicenni Rafael Garza Gutiérrez e suo cugino Germán Núñez Cortina. I due ragazzi decidono di creare una squadra e, per parlarne, radunano un gruppo di ragazzi presso la casa della zia di Germán. All’incontro Garza Gutiérrez si presenta con una maglia color crema e dei pantaloncini blu, presi in prestito da suo padre. L’abbinamento piace e questi diventano i colori sociali della nuova squadra, che dietro suggerimento dello stesso Garza Gutiérrez viene chiamata Record. Il problema che si presenta subito però è economico: molti dei giocatori non possono permettersi una divisa come quella di Garza Gutiérrez e la squadra non riesce a disporre di più di un pallone.
Poco lontano intanto, al Colegio Marista de la Perpetua, si è formato il Colón, un’altra squadra studentesca. Anche qui ci sono problemi, ma esattamente opposti rispetto al Record: c’è cashmere in abbondanza per le divise e ci sono i palloni, ma ad ogni partita si fa fatica a trovare 11 ragazzi da mandare in campo.
Eugenio Cenoz, allenatore del Colón, viene a sapere dell’esistenza e delle difficoltà del Record, così ha un’intuizione vincente: fondere le squadre per unire le forze. L’idea piace subito a tutti ed il 12 ottobre 1916 i due club si uniscono ufficialmente; il Colón porta il materiale, il Record porta i giocatori. Pedro “Cheto” Quintanilla propone come nuovo nome Club América, essendo quel giorno l’anniversario della scoperta del continente da parte di Cristoforo Colombo. Proposta approvata all’unanimità. I colori adottati sono il crema ed il blu del Record, considerati belli ed originali. Allo stemma ci pensa ancora Quintanilla, che stilizza il continente americano nei colori sociali insieme alle iniziali del nuovo nome. Inizia così la storia del Club América.
Il primo ciclo vincente
Entrato a far parte del neonato campionato messicano, l’América si distingue subito per il bassissimo numero di stranieri fra le sue fila, al contrario degli altri club della lega. Nella stagione 1923-24 l’América sfiora il primo titolo. Nel match decisivo contro il Club España l’azulcremas Alfredo García Besne segna il gol del momentaneo 2-0 con la mano. Garza Gutiérrez, che dell’América ne è capitano ed allenatore, con grande fair play informa del fatto l’arbitro, che non se n’era accorto. Gol annullato. L’España, rinfrancato dallo scampato pericolo, rimonta e vince 2-1, aggiudicandosi il campionato. Agli azulcremas però tocca aspettare solo un anno in più.
La stagione ’24-’25 è quella del primo titolo per l’América, che conclude l’annata imbattuta. La certezza matematica arriva dopo la vittoria con l’Asturias, battuta 1-0 con un gol all’87’ di Juan Terrazas su assist del solito Garza Gutiérrez. Infastidite dalla vittoria di una squadra totalmente messicana, le società di matrice spagnola decidono di abbandonare il campionato, cambiando però idea subito dopo e presentandosi ai nastri di partenza della nuova stagione più agguerrite che mai.
L’avvincente campionato ’25-’26 finisce con América ed Asturias a pari punti. La federazione, cercando di agevolare l’Asturias per evitare una nuova uscita dal campionato degli iberici, decide che il titolo sarà assegnato al termine di tre spareggi fra le due contendenti. Il terzo incontro, quello decisivo, se lo aggiudica però l’América, che grazie al gol di Ernesto Sota si riconferma campione.
L’anno dopo la squadra, ulteriormente rinforzata con l’ingaggio di nuovi giocatori e del direttore tecnico americano Percy Clifford, si aggiudica il terzo titolo consecutivo, che vale anche la conquista della Challenger Cup. Nel 1927, inoltre, gli azulcremas si concedono il lusso di affrontare in una doppia sfida il Real Madrid. Perdono in entrambi gli appuntamenti, ma resta un’esperienza indimenticabile. Nel ’27-’28 arriva poi uno strepitoso poker in campionato. Alle Olimpiadi del ’28 ed ai mondiali del ’30, visto lo strepitoso ciclo di vittorie dell’América, la Nazionale messicana si affida per la maggior parte della rosa ai giocatori azulcremas.
La rivalità ed i cambi di proprietà
Nei decenni successivi l’América, vessata da problemi finanziari, non riesce più ad imporsi sui livelli degli anni ’20. Si afferma però, a partire dagli anni ’40, la grande rivalità con l’altra squadra destinata a fare la storia del calcio messicano: il Chivas di Guadalajara. In un’epoca in cui il seguito del pubblico è già elevato, le sfide fra i due club si fanno sempre più accese. Oltre alle ragioni sportive infatti, la rivalità assume connotazioni extracalcistiche: l’América rappresenta l’alta borghesia e, nel corso degli anni, si affida a grandi giocatori stranieri da abbinare ai talenti messicani; il Chivas invece, squadra popolare, punta quasi esclusivamente sui giocatori locali. L’incontro fra le due squadre, per il prestigio di entrambe e la forte rivalità, viene definito Superclásico.
Nel 1954 i due club si affrontano nella finale della coppa nazionale. È un match attesissimo. Tempi regolamentari e supplementari non bastano a decidere il vincitore, si va ai rigori. La formula però non è quella consueta: ogni squadra beneficia di tre rigori e ad incaricarsene è un solo giocatore per ciascuna. Per l’América tira Emilio Fizel, per il Chivas invece Juan Jasso. In porta per gli azulcremas non c’è il portiere titolare Manuel Camacho, che è stato espulso, ma l’attaccante Eduardo Palmer. Come in una favola, è proprio Palmer ad essere l’eroe della finale, parando uno dei tiri di Jasso e consegnando la vittoria all’América, che torna così ad ottenere un titolo. L’anno dopo gli azulcremas bissano il successo.
Nel ’56 la squadra viene rilevata da Isaac Bessudo, proprietario dell’azienda di bevande Jarritos, che ne risana le finanze. Tre anni dopo, nel ’59, ad acquistare il club è Emilio Azcarraga Milmo, figlio del proprietario di Telesistema Mexicano, una società televisiva. Milmo investe consistentemente nel club, acquistando stranieri di talento sia per la squadra che per lo staff. La punta di diamante della campagna acquisti è senza dubbio Vavá, brasiliano bicampione del mondo, componente insieme a Didi, Pelé, Garrincha e Zagallo di uno dei reparti offensivi più forti di sempre.
La scelta paga, perché gli azulcremas tornano a frequntare abitualmente le zone nobili della classifica e si portano a casa tre titoli: due coppe nazionali nel ’64 e nel ’65 ed il campionato ’66. Sempre nel ’66 la squadra gioca la sua prima partita allo stadio Azteca, affrontando i granata del Torino in un’amichevole finita 2-2.
Nel ’69 arriva all’América Enrique Borja. Il formidabile centravanti, inizialmente restio ad accettare il trasferimento, viene convinto dal presidente degli azulcremas Guillermo Cañedo. Diventerà una bandiera del club, firmando ben 102 gol in 115 presenze. Altro acquisto di spessore si rivela, l’anno dopo, quello del cileno Carlos Reinoso, centrocampista che sarà autore di stagioni strepitose. Gli anni ’70 regalano altri successi, fra cui spicca il trionfo in Copa Intramericana del ’78 contro il Boca Juniors, grazie ad una punizione proprio di Reinoso al 119′. L’América diventa così la prima squadra non sudamericana a vincere il trofeo.
I grandi successi, il declino e la ripresa
Gli anni ’80 si aprono con una stagione di cambiamenti: in panchina José Antonio Roca viene sostituito da Reinoso, ritiratosi intanto dal calcio giocato. Nel 1981 poi, l’amato presidente Cañedo lascia l’incarico, venendo sostituito da Emilio Díez Barroso. Quest’ultimo si fa promotore di una totale rivoluzione del club, articolata in tre punti: ristruttura decisamente l’organico, acquistando nuovi giocatori stranieri, modifica le divise, rendendo più acceso il giallo della maglia ed inserendo un triangolo blu sul petto, e decide di coniare un nuovo soprannome, le aquile, per rendere più accattivante l’immagine della squadra. La rivoluzione funziona. Gli anni ’80 sono un vero e proprio decennio d’oro per l’América. Le Aquile trionfano ben sei volte in campionato e due in supercoppa, aggiudicandosi per la prima volta anche la Coppa dei Campioni della CONCACAF, vinta nell’87 contro il Defence Force di Trinidad e Tobago.
Fra i giocatori messisi in mostra nel decennio c’è l’argentino Alberto Daniel Brailovsky, attaccante autore di 37 reti in 87 partite tra il 1982 ed il 1985. Negli anni ’90, sull’abbrivio del decennio precedente, le Aquile vincono altre due Coppe dei Campioni, nel ’90 e nel ’93 e la Copa Intramericana sempre nel ’93. Il presidente Barroso, non sazio dei continui successi, nel ’92 regala alla squadra, per una stagione, l’attaccante ex Real Madrid Hugo Sanchez, poi nel ’94 chiama in panchina l’olandese Leo Beenhakker, reduce dal trionfo nella Liga spagnola con le Merengues. Il ct può contare su uno squadrone dove militano giocatori come il camerunense François Omam-Biyik, ma nonostante un grande cammino in campionato viene esonerato nella primavera del ’95 per aver difeso Joaquin del Olmo, in contrasto con il presidente. L’appuntamento col successo viene allora rimandato di altri sette anni, fino al golden goal di Hugo Norberto Castillo al Necaxa, che vale la vittoria del campionato 2002.
Nel 2005 il successo si ripete, con il trionfo nel torneo di Clausura di una squadra dove si distingue il messicano Cuauhtémoc Blanco. L’anno dopo la squadra conquista la Champions League. Gli anni 2010 vedono le Aquile tornare ad essere in pianta stabile una delle maggiori potenze del calcio messicano e centro-nord americano. I due successi in Champions League del 2015 e del 2016 portano infatti gli azulcremas (tornati ai colori originari nel 2015), alla cifra record di sette trionfi nella competizione. Numero di vittorie da primato anche in campionato, dove le Aquile grazie alle affermazioni nei tornei di Clausura 2013 (grazie ad una memorabile finale vinta ai rigori contro il Cruz Azul dopo una clamorosa rimonta in inferiorità numerica), Apertura 2014 ed Apertura 2018. Nel 2019 arrivano inoltre il successo in coppa nazionale e quello in supercoppa.
La squadra attuale
Oggi l’allenatore degli azulcremas Miguel Herrera ha a disposizione una rosa in cui sono presenti giocatori di spicco come Guillermo Ochoa, iconico portiere messicano con alle spalle una lunga carriera in Europa (Ajaccio, Malaga, Granada e Standard Liegi) e soprattutto una strepitosa prestazione ai Mondiali 2014, dove parò tutto ai brasiliani padroni di casa. In attacco c’è Giovani Dos Santos, altro grande esponente del calcio messicano, ex Barcellona (dov’è cresciuto) e Tottenham. Suo compagno di reparto è il cileno Nicolas Castillo, vecchia conoscenza del Frosinone (dove ha militato nel 2015-16), arrivato dal Benfica, ma il capocannoniere della squadra è il 28enne attaccante messicano Hnery Martin, autore di 8 gol nel torneo di Aprtura 2020, concluso al terzo posto dall’América.
In attesa del torneo di Clausura, gli azulcremas puntano forte sulla Champions League. Il 20 dicembre sono infatti attesi dalla semifinale del 20 dicembre con il Los Angeles.
L’Aquila ha messo nel mirino quella che sarebbe la sua ottava Champions.
La semifinale e l’eventuale finale saranno sfide tutte da gustare!