Il pragmatismo e i soldi dei fondi per salvare il romanticismo

Il pragmatismo e i soldi dei fondi per salvare il romanticismo

(Photo: Getty Images)

“Diventare ricchi è glorioso”. Per capire il calcio di oggi, può tornare forse utile il pragmatismo di Deng Xiaoping Il leader che ha aperto le porte della Cina al mondo, traghettandola nella modernità, ha saputo rompere con il passato e abbracciare il libero mercato. Una rivoluzione inimmaginabile in un Paese che aveva ancora, nel suo DNA, i geni del maoismo. L’idea che non ci fosse nulla di male nell’arricchirsi, nella morigerata società cinese degli anni Ottanta, fu deflagrante. E i risultati, al di là dei giudizi morali o politici, sono sotto gli occhi di tutti: la Cina poco più di trent’anni dopo è la prima economia al mondo. Comunque la si pensi, la qualità della vita dei cittadini cinesi è migliorata, anno dopo anno, in maniera esponenziale. E nessuno, oggi, pare vergognarsene.

Il calcio, in un certo senso, ha vissuto una parabola simile. Paludato negli scandali e nei debiti degli anni Ottanta, ha scoperto prima i grandi capitali, poi i diritti televisivi. Diventando, in poco tempo, come lo conosciamo oggi, ossia un settore produttivo ed economico di primissimo piano. Capace di fatturare miliardi e attrarre sempre nuovi investitori. “Persino” in Italia. Dove, comunque, i club fatturano ancora sensibilmente meno di quelli di Liga e soprattutto Premier. Nonostante l’ostracismo di molti tifosi, i fondi di investimento e i grandi gruppi internazionali controllano 8 squadre della nostra Serie A. Che diventeranno 9 con l’Atalanta, ad un passo dall’accordo tra la famiglia Percassi ed un fondo Usa.

Non c’è molto di romantico, come non c’era nulla di romantico nella Superlega. Eppure, per salvare quel po’ di romanticismo rimasto, ci vogliono i soldi. Sono quelli che pagano i campioni, che portano i tifosi allo stadio, che fanno innamorare i bambini. In fondo, non è stato sempre così? Quando Ferlaino portò a Napoli Maradona, regalò alla città l’eroe di cui aveva bisogno. Prima, durante e dopo, i soldi dei Moratti, degli Agnelli, di Cragnotti, di Tanzi, di Sensi e di Cecchi Gori, hanno fatto altrettanto. Negli anni Novanta, la Serie A era il miglior campionato del mondo. E, ovviamente, il più ricco. Perché non c’è niente di male, nell’arricchirsi. E se l’imprenditoria italiana non ha più le forze, ben vengano i fondi di investimento.

“Non importa se un gatto è bianco o nero, finché cattura i topi”. È sempre di Deng Xiaoping. Non importa da dove arrivano i soldi, basta che servano a far tornare grande, dopo troppi anni di declino, i club della Serie A. Che hanno perso troppo spesso l’occasione di fare gli investimenti necessari, e agganciare il treno degli altri grandi campionati europei. Bastano i soldi? No, ci vuole una visione, un piano, programmazione, managerialità. Rendere la Serie A uno spettacolo per cui valga la pena alzarsi dal divano e tornare allo stadio. Uno show da vendere ai quattro angoli del mondo, sul modello della Premier. Un prodotto commerciale migliore di quello che è oggi.

Anche, perché no, per salvare quel po’ di romanticismo rimasto. Quello che ancora si respira nelle curve, sempre meno intransigenti nei confronti delle proprietà straniere. Perché alla fine, in pochi nella Milano nerazzurra hanno visto qualcosa di più romantico di un dribbling di Ronaldo. Arrivato, nel 1997, con i soldi della famiglia Moratti. 48 miliardi di lire, che secondo lo studio di “Play Ratings”, tenendo conto dell’inflazione, sono equiparabili a 380 milioni di sterline di oggi: 423 milioni di euro. Del reato, il calcio è sempre stato espressione del potere economico, in particolar modo in Italia. Lo stesso che, oggi, è passato nelle mani delle multinazionali. Con buona pace dei romantici e dei nostalgici di un calcio che forse non è esistito mai.