I costi del calcio: Rummenigge ha ragione da vendere
La pandemia, gli stadi chiusi e i mancati incassi al botteghino hanno acuito in maniera evidente l’insostenibilità finanziaria del calcio. I costi di gestione sono ormai altissimi, lievitati in maniera esponenziale nel corso dell’ultimo decennio. E se il valore dei cartellini dei calciatori, come abbiamo visto la scorsa estate, è sensibilmente diminuito, quello degli stipendi è ancora altissimo.
Lo racconta bene il contratto monstre di Lionel Messi, di cui sin troppo si è detto, come se l’avesse firmato da solo, di cui il Barcellona però non ha avuto il coraggio di liberarsi. Dietro, inutile ricordarlo, c’è il giocatore (o uno dei due) più forte del mondo, di sicuro di questa epoca, forse di sempre. E rinunciarci, per un club e per una tifoseria, può essere difficilissimo. Anche quando le casse societarie sanguinano.
“Posso fargli solo i complimenti, perché è riuscito a fare un contratto così astronomico”, ha detto Rummenigge nell’intervista uscita oggi sulle pagine del Corriere della Sera. In cui, però, ha ricordato anche come sia proprio il peso degli ingaggi a soffocare i bilanci, insieme alle commissioni degli agenti. Due costi che, paradossalmente ma non troppo, lievitano al calare del prezzo del cartellino. Quando un giocatore arriva a scadenza, infatti, acquisisce un potere contrattuale quasi smisurato. E gli agenti, ben sapendo il risparmio per il club che se lo accaparrerà, spuntano commissioni astronomiche per spingere il campione di turno verso l’uno o l’altro club.
Per fare un esempio, senza dargli alcuna valenza, prendiamo il passaggio di Rabiot alla Juventus. Arrivato a parametro zero, gestito dalla famiglia, è riuscito a garantirsi 10 milioni di euro alla firma e 7,5 all’anno per quattro anni. Tanto. Forse troppo per il valore del giocatore, seconda scelta nel PSG e certo non il cardine del centrocampo della Juventus. Ma è solo un esempio tra tanti, a cui il calcio europeo non sa porre rimedio. Né, e questo è sempre bene ribadirlo, è una logica a cui sanno sottrarsi i club. Ormai incastrati in un vero e proprio circolo vizioso.
Che dura almeno dal 2008, ossia da quando, come ricorda ancora Rummenigge, “con Platini presidente della Uefa e Infantino direttore generale, siamo andati a Bruxelles per capire se fosse una strada percorribile: i politici ci hanno sempre detto che saremmo andati contro la legge europea. Magari adesso è il momento opportuno di fare una nuova iniziativa e correggere quello che abbiamo combinato negli ultimi dieci anni”. Ecco, magari.
Il salary cap sembra l’unica soluzione sensata, a patto che venga rispettato. Per tenere sotto controllo i costi, in effetti, la Uefa ha imposto da anni paletti che, ciclicamente, i grandi club aggirano con disarmante facilità. Il rischio del salary cap è che vada a scapito di club come il Bayern Monaco, o anche il Real Madrid o il Barcellona. Che non hanno, a differenza di PSG e City, la possibilità di far rientrare dalla finestra (sotto forma di sponsorizzazioni a volte fantasiose, altre sovrastimate) tutto ciò che non può passare dalla porta.
Basterà, o meglio, basterebbe il salary cap a salvare il calcio? No, di sicuro no, ma darebbe una mano. Almeno a riportare sui binari della normalità il monte ingaggi delle squadre. L’altra nota dolente, solo sfiorata da Rummenigge, che ha comunque ricordato più volte come la pensa, riguarda agenti e procuratori. Limitarne i costi, anche in termini legislativi, è un dovere morale per la Uefa. E una necessità per i club. Che, a scanso di equivoci lo ripetiamo per la terza volta, hanno comunque sempre in mano il loro destino.
Lo dimostra bene il Bayern Monaco, dove i migliori – Neuer, Lewandowski e Müller – guadagnano 15 milioni di euro lordi. Proprio come Rabiot, che della rosa della Juventus di certo non è il pezzo più pregiato. E i tifosi? I tifosi, che del calcio sono i veri protagonisti, per una volta dovrebbero essere non tanto aziendalisti, quanto realisti, e tifare prima per la maglia, poi per il campione. Ben sapendo che è il campione che fa sognare, ma anche vincere e vendere. Lo sa bene il Barcellona, così come lo sanno i dirigenti di qualsiasi grande club, chiamati oggi ad un sacrificio necessario, imponendo dei limiti all’insegna della sostenibilità, economica e morale, del pallone. Strozzato da costi diventati insostenibili.