Fredy Guarin, il lato oscuro del campione: quando la fama diventa un boomerang
Fredy Guarin, il coraggio di essere prima di apparire. L’ex campione di Porto e Inter ha preso il coraggio a due mani e ha pubblicato un post in lacrime in cui racconta le proprie fragilità: una vera e propria epifania – intesa come rivelazione – quella dell’ex centrocampista colombiano che ha aperto il sentiero (nel suo caso) alla strada verso la fede. Tanti come lui, per ragioni diverse. Uno dei primi a carpire le suggestioni del proprio animo fu Nicola Legrottaglie. Un altro ancora è Giroud, fortemente credente: ha trovato in Dio qualcuno disposto a tendergli una mano.
L’aspetto importante, però, nella vicenda Guarin e non solo, sta nella doppia faccia che questi campioni mostrano: una vita a rincorrere il successo con più dubbi che certezze, poi arriva la grande opportunità, stadi pieni, folle urlanti, per 20 anni al massimo. Quando va bene. E poi? Molti la risposta al futuro non ce l’hanno: nessuno pretende che diventino veggenti, altrimenti non avrebbero avuto bisogno di dedicarsi a un solo obiettivo per un’intera carriera, ma almeno sapere la propria indole. Determinare un destino che prende un’altra piega.
Fredy Guarin, l’altra faccia della notorietà
Enigma questo che ha provato a sollevare anche Francesco Totti: nel suo documentario, che si è meritato addirittura un David di Donatello, ha fatto emergere quanto un’icona possa sentirsi smarrita dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. L’ex Capitano della Roma, in odor di separazione, ha confessato che dopo il proprio ritiro sono cominciati anche i problemi in famiglia: “Ero spesso nervoso”, ha detto. “Non mi sentivo capito”. Questo è successo anche a Guarin che ha avuto la colpa – in particolare modo secondo la Giustizia – di canalizzare la sua rabbia in maniera errata e inconcepibile: la condanna per violenza domestica come una macchia su un Curriculum quasi perfetto.
Una caduta che racconta ancora meglio quelle lacrime postume: “Ho cercato il perdono di Dio, spero possa riuscire a perdonarmi anch’io”. Queste sono situazioni che vanno ben oltre la semplice redenzione. È una vera e propria alienazione: Guarin era diventato schiavo di un’idea che aveva. Non si riconosceva più neanche allo specchio. Essere alienati non significa essere apatici. Vuol dire convivere con le proprie fragilità, anche odiandosi, senza riuscire a scacciarle poiché – una volta tolte – sarebbe impossibile riconoscersi. Come se identificare la resa sarebbe non solo, secondo la logica straniante, un fallimento ma anche un punto di non ritorno dal quale è difficile tornare.
Il baratro come punto di svolta: la necessità di umanizzare le icone
L’abisso che ha coinvolto, in maniera diversa, anche Josip Ilicic. In molti hanno parlato di depressione, ma dietro quest’etichetta c’è un mondo che Guarin ha provato a scardinare a mezzo social: una porta sull’ignoto “per essere utile a qualcuno” come ha ribadito. Lezione ulteriore che dimostra come certe suggestioni conservino una natura talmente democratica da sconvolgere: il buio arriva per tutti, la ricchezza e il successo non rendono immuni dalla selva di angosce con cui ciascuno è costretto a fare i conti.
Non è possibile dribblare i problemi come sul campo: questi avversità, che non sono semplici avversari, vanno affrontate in altro modo. In primis con l’accettazione della propria condizione: arrivare in basso può aiutare a risalire, ma è impossibile capirlo finché davvero non si fanno i conti con il baratro. Per questo – e anche di più – non è possibile bollare il messaggio social dell’ex nerazzurro come un semplice sfogo. È piuttosto una finestra su uno status che, purtroppo, non risparmia nessuno. Neppure chi dovrebbe essere un vincente da contratto.