ESCLUSIVA CIP – Luigi Della Rocca: dal calcio dei primi anni 2000 ad oggi

ESCLUSIVA CIP – Luigi Della Rocca: dal calcio dei primi anni 2000 ad oggi

(Photo by Dino Panato/Getty Images)

Nato a Brindisi nel 1984, Luigi Della Rocca ha appeso gli scarpini al chiodo nel 2021. Alle spalle ha, però, 20 anni di carriera da giocatore di calcio. Cresciuto nelle giovanili del Bologna, ha esordito in Serie A non ancora diciassettenne nella stagione 2000/2001, nel palcoscenico più importante d’Italia: San Siro. Nella sua carriera giovanile ha sollevato anche un campionato Europeo Under 19 con l’Italia, segnando per lo più in finale contro il Portogallo nel 2003. Il massimo campionato italiano lo vedrà per 22 partite, poi tanta Serie B, sempre col Bologna, ma anche con la Triestina, con la quale ha collezionato ben 131 presenze. Gli ultimi anni da giocatore li trascorre poi tra Lega Pro ed infine Serie D, con la maglia del “suo” Sasso Marconi. Di quest’ultima squadra ne è ora allenatore.

Luigi Della Rocca è stato intervistato da Federico Draghetti in esclusiva per Calcio in Pillole. Si è parlato del calcio dei primi anni 2000 e delle differenze con quello di oggi, degli Europei Under 19 vinti e di vari aneddoti su promesse del calcio mai mantenute, come Meghni o Cipriani.

L’intervista completa a Luigi Della Rocca

Più di 20 anni come giocatore di calcio, dalla Serie A col Bologna, alla Triestina, fino alla Serie D: cosa fa ora Luigi Della Rocca?

“È da febbraio 2021 che la società di Serie D dove giocavo (il Sasso Marconi, ndr) mi ha proposto di diventare allenatore della prima squadra, avendo già acquisito il patentino da allenatore. È stato un fulmine a ciel sereno, ma l’età che avanzava, ed il fisico che ultimamente aveva qualche problema, mi ha convinto ad accettare. Ho deciso di rischiare, perché eravamo penultimi con 10 punti alla fine del girone d’andata. È stata una scommessa, ma mi sembrava logico iniziare questa avventura in un posto che conoscevo ormai da quattro anni”.

Sei cresciuto nelle giovanili del Bologna: come è stato il passaggio dal settore giovanile alla prima squadra?

“Tutto sommato è stato abbastanza naturale e graduale. Già nel 2001 diversi giorni della settimana venivo aggregato agli allenamenti della prima squadra. Perciò io, come diversi miei vecchi compagni di squadra, abbiamo avuto tempo di abituarci ai ritmi ed alla fisicità ‘dei grandi’ di quell’epoca”.

Quali sono i tuoi ricordi e le impressioni della Serie A che hai vissuto? Nei primi anni 2000 il livello era più alto o più basso di quello attuale?

“Penso che in generale il livello, per quanto riguarda le squadre medio-piccole, era più alto. Le ‘big’ erano sempre fortissime e la differenza c’era anche allora. Però penso che anche tra le altre squadre c’era più qualità nelle rose. Il calcio di quegli anni rispetto a quello di oggi è cambiato molto. Oggi si parla di un gioco molto più fisico, veloce, forse anche meno tattico se guardiamo negli ultimi anni. Non a caso si vedono punteggi molto più larghi, magari anche per il Var, che ha inciso tanto. Negli anni 2000 il calcio era più tecnico e un po’ meno fisico”.

Nella tua esperienza a Bologna hai giocato anche con Cipriani, ragazzo che sembrava destinato ad esplodere. Dopo l’infortunio al ginocchio si perse e non riuscì a realizzarsi a pieno. Come mai? Fu solo per via dell’infortunio?

“Cippo aveva tutto per sfondare: abbinava una grande fisicità ad una buona tecnica, sapeva giocare a calcio. Purtroppo è stato davvero sfortunato per via degli infortuni. Soprattutto quando interessano le ginocchia, come nel suo caso, finiscono per condizionarti in maniera importante. Quando ti infortuni e sei costretto a stare fuori per diversi mesi, poi magari ricominci e ti fai di nuovo male, inizi a perdere certezze. Anche inconsciamente hai paura di osare per evitare di infortunarti nuovamente. Questo ti limita in campo. L’unico motivo delle sue difficoltà è stato quello degli infortuni, perché aveva tutto per diventare un grande giocatore“.

Da una promessa all’altra del Bologna di quegli anni: Mourad Meghni. Talento del calcio francese, chiamato anche “il nuovo Zidane”, ma che poi è sparito dai radar. Cosa ti ricordi di lui?

“Aveva delle qualità tecniche, fisiche e atletiche incredibili: era un giocatore completo. Nonostante venisse soprannominato ‘nuovo Zidane’, il suo ruolo era più da centrocampista che da punta o mezza punta”.

Hai avuto il piacere di giocare con Giuseppe Signori al Bologna. Come è stato allenarsi e confrontarsi con un campione del genere? Ti ha dato insegnamenti a livello professionale e umano?

“In questo caso si parla di campioni assoluti. Allenarti con giocatori del genere è facile, basta che fai un movimento giusto e sai che da loro il pallone ti arriva sui piedi. Dal punto di vista umano, io Meghni e tutti i più giovani, venivamo un po’ coccolati dai più grandi come Signori. Vero anche, che quando c’era da strigliare lo facevano senza problemi e ci stava. Il rapporto è sempre stato ottimo”.

Un aneddoto che ricordi con piacere della Serie A in cui hai giocato

“Col Bologna giocavamo a San Siro contro il Milan, io entrai in campo. I rossoneri ad un certo punto della gara fecero un cambio: fuori Costacurta. Io ero vicino a lui, Billy aveva la fascia di capitano al braccio. Prima di uscire dal campo mi guarda e mi dice: ‘Bambino allunga la fascia ad Abbiati’. Per me, che avevo tra i 18 e i 19 anni fu una cosa particolare, che mi è sempre rimasta impressa nella mente”.

La tua carriera è stata segnata dalla vittoria dell’Europeo Under 19 con l’Italia: vittoria per 2-0 in finale sul Portogallo, con gol di Pazzini e proprio di Della Rocca. Il titolo, per quell’epoca, mancava dal 1958. Cosa ricordi di quell’esperienza?

Sapevamo di essere una squadra forte. Già diversi di noi avevano avuto esperienze nelle prime squadre dove giocavano. Vincere ovviamente non era scontato, ma oggettivamente se si va a rivedere la rosa di quella squadra, si poteva immaginare un risultato del genere. Quasi tutti i giocatori di quella squadra hanno poi militato in Serie A, B o C, alcuni, come Chiellini, anche ad alti livelli e sono ancora lì. I mezzi per fare qualcosa di importante li avevamo. Ovvio che quando ti vai a scontrare con squadre come Francia o Portogallo a livello giovanile il dubbio di non farcela c’è, però oggettivamente sapevamo di avere frecce appuntite da poter scoccare”.

Nell’Italia Under 19 di quell’anno militavano anche Chiellini, Aquilani e Pazzini. Si vedeva già che quei giocatori erano di un’altra categoria o eravate più o meno tutti allineati sugli stessi livelli?

“A quell’epoca eravamo più o meno tutti sullo stesso livello. È chiaro che loro, rispetto ad altri, hanno avuto qualcosa in più, sia a livello mentale che fisico. Quelle che erano le loro caratteristiche sono poi rimaste nel tempo. Chiellini per esempio era fisicamente già dominante, con una cattiveria agonistica importante. Stesso discorso vale per Aquilani e Pazzini. Il primo era un centrocampista totale, sapeva fare bene tutte le fasi con grande facilità. Giampaolo in area era micidiale, e pur non essendo fisicamente dominante di testa era davvero forte”.

Da attaccante com’era affrontare un osso duro come Chiellini in allenamento?

“Sicuramente era duro da affrontare, la sua fisicità era importante. In campo si trasforma, non si assocerebbe la sua prestazione agonistica alla persona buonissima che è fuori dal campo”.

Hai rimpianti o occasioni che ti senti di aver perso nel corso della tua carriera? Potevi fare di più?

“Sicuramente, chiunque risponderebbe di sì, è normale averli e penso che tutti li abbiano. Quando non riesci a raggiungere determinati obiettivi non è sempre colpa degli altri, della sfortuna o degli infortuni. Però il rimpianto più grosso che ho è quello dell’infortunio del 2005 a Bologna, dove mi ruppi il legamento crociato anteriore. Avevo appena fatto gol a Roma, poi dopo il mio infortunio, in quell’anno arrivò la retrocessione del Bologna. Da lì purtroppo la Serie A non l’ho più vista. Ho il rimpianto di aver abbandonato la massima categoria senza aver potuto dare una mano al Bologna per cercare di difenderla per via dell’infortunio”.

Come vedi cambiato il “calcio di ieri” con quello di oggi?

“Negli ultimi anni il Var ha totalmente cambiato il gioco: in positivo per un certo tipo di giocatori, in negativo per un’altra. Oggettivamente fare il difensore oggi è molto più complicato: ci sono tanti rigori, ed un difensore deve stare davvero attento agli interventi che fa. Bisogna essere più ‘leggeri’ nelle marcature in area, magari un contatto lieve, rivisto, ha tutto un altro effetto sulla partita. Come detto, forse oggi si vede un calcio meno tattico, molte squadre stanno cercando di dare la mentalità a livello più europeo. C’è più ritmo e meno pause, come in Premier League. L’Atalanta ha fatto questo tipo di calcio negli ultimi anni e lo fa davvero bene, così come il Milan, che secondo me sta andando in quella direzione”.

L’impressione di Della Rocca sulla Serie A di quest’anno

“Ci sono tre squadre che hanno qualcosa in più: l’Inter su tutte, poi il Milan ed il Napoli. I rossoneri giocano un calcio davvero bello da vedere, così come i partenopei a tratti, mentre i nerazzurri hanno la rosa più forte di tutte. Queste tre lotteranno fino alla fine per lo scudetto, ma l’Inter la vedo favorita”.

Come hai vissuto il passaggio da giocatore ad allenatore?

“Sicuramente è molto più complicato. Devi ragionare tenendo conto di 25/30 persone, non è semplice. Devi cercare di mettere i giocatori che hai a disposizione nelle condizioni di esprimersi al meglio secondo le loro caratteristiche. Serve buona capacità gestionale per il gruppo, a livello umano. Dal punto di vista fisico passi ‘da tutto a niente’. Io personalmente ho sentito l’esigenza di dare una tregua al mio corpo una volta appesi gli scarpini al chiodo. Avendo avuto tre operazioni e diversi infortuni sentivo la necessità di dare sollievo al mio fisico”.

Ad oggi Della Rocca allena il Sasso Marconi, in Serie D. Com’è secondo Luigi lo stato attuale del calcio dilettantistico?

È un calcio particolare, spesso si mettono a confronto delle realtà che sono agli antipodi. Ad esempio, a volte capita di trovare la squadra della grossa città che è ‘nobile e decaduta’, che ha potenzialità totalmente diverse dalla piccola squadra del paesino che con tanti sacrifici è arrivato alle porte del professionismo. Il problema del calcio dilettantistico, e che c’è anche nel professionismo, è quello delle strutture, sia nei campi d’allenamento che di gioco. Non mi piace tanto l’obbligo del numero minimo di giovani da avere in campo ogni partita. Questo aspetto andrebbe rivisto. Magari ci si trova a lanciare ragazzi che non sono pronti in quel momento a gestire determinate pressioni. A volte è una forzatura. Molti giovani, finito il periodo degli under, si ritrovano a scendere in categorie inferiori, o addirittura a mollare il calcio”.

Ci sono possibilità di crescita per un giovane che si ritrova a giocare nel calcio dilettantistico?

“Le possibilità ci sono sempre. Chiaro che bisogna vedere a che età ti affacci nel mondo dilettantistico. Se si parla di un ragazzo di 21/22 anni, quello ha ancora tempo per poter fare il salto di qualità. È diverso se si parla di un giocatore di 27/28 anni che è ancora nei meandri della Serie D, in quel caso è più difficile arrivare”.

I problemi dovuti al Covid hanno avuto forti ripercussioni anche in Serie D. Come hai vissuto la pandemia col Sasso Marconi?

“Ci siamo ritrovati ad affrontare interi mesi senza poter disputare partite. Non è stata semplice la gestione del gruppo dal punto di vista mentale e di motivazione. Non vedere l’obiettivo (quello della partita, ndr) ha reso difficile trovare gli stimoli per affrontare le settimane. Il problema grosso poi è stato quello dei contagi a livello numerico: magari pensavi di poter schierare quel determinato giocatore, poi indisponibile all’ultimo per Covid, e sei costretto a stravolgere i tuoi piani. Un altro problema è stato quello dei recuperi: incastrare le varie partite durante la settimana è stato sicuramente un aspetto negativo. Ora sembra che si stia andando verso una risoluzione maggiore del problema”.

Gli obiettivi per il futuro

“Di preciso non lo so. Ora mi sono buttato in questa avventura (di allenatore del Sasso Marconi, ndr) con grande entusiasmo sin dall’inizio. Mi piace e mi dà tante soddisfazioni soprattutto la domenica. L’aria della partita e vedere il lavoro fatto in settimana messo in pratica mi dà gusto e mi gratifica anche nei momenti meno belli. A medio/breve termine è questo il percorso che vorrei fare. Poi le possibilità e le opportunità si vedranno nel futuro più lontano. Ho lo stimolo di fare una ‘carriera al contrario’ rispetto a quella da calciatore. Da giocatore sono partito dall’alto e sono finito nei dilettanti, magari da allenatore potrei fare il percorso inverso facendo la gavetta”.