In esclusiva per la redazione di Calcio in Pillole, Antonio Caliendo, pioniere in Italia dei procuratori sportivi, ha rilasciato una lunga intervista: da Antognoni a Trezeguet e Maicon, passando per Baggio, Boniek e Dunga. Nessuno prima di lui.
Da un paesino di poco più di 1000 anime nella provincia di Napoli alla creazione nel 2003 del Golden Foot, quest’ultimo oggi riconosciuto come uno dei premi più prestigiosi nel mondo del calcio. Pioniere in Italia dei procuratori sportivi, Antonio Caliendo è il prototipo del self-made man: partito dal nulla tra umili lavori quali benzinaio e venditore di enciclopedie porta a porta, divenuto poi il re del calciomercato negli anni d’oro di Diego Armando Maradona e Roberto Baggio. In esclusiva per la nostra redazione di Calcio in Pillole, Caliendo ha rilasciato una lunga intervista: dalla procura del Pibe de oro (Maradona) a un curioso aneddoto su George Best.
È tornato in Italia il calcio scommesse, questa volta con Fagioli e Tonali: qual è il suo pensiero?
“Il calcio scommesse è sempre esistito, lo guardiamo dai tempi del povero Paolo Rossi che fu tirato dentro anche se era ingenuo su queste cose, non avrebbe mai accettato dei compromessi un campione come lui. Però succede per tutti quelli che girano intorno al calcio, come ad esempio per le droghe: i sudamericani sono le maggiori vittime di questo, ma c’è tutta una storia dietro. Allora i ragazzi vengono già adocchiati e avvicinati all’età di 16-17 anni: prima fanno vedere loro che è un gioco, un divertimento, dopodiché li tirano dentro e da lì diventa un vizio perché quando uno entra nel sistema gli succhiano tutto il capitale che guadagna“.
Crede che ci siano differenze tra i suoi anni e oggi sul rapporto tra procuratore e calciatore?
“Il rapporto è cambiato moltissimo. Prima il procuratore faceva anche da papà o da fratello maggiore e non c’era giorno in cui non si sentiva con il suo amministrato. Questa era la gestione di una volta rispetto a quella di oggi, che è diventata più un’industria che un rapporto umano tra due persone. Già vent’anni fa io dicevo a tutti i colleghi che il lavoro da procuratore sarebbe terminato, perché sarebbero nati questi grandi gruppi finanziari che poi s’intromettono con la loro potenzia economica nel mercato. Se oggi uno va a prendere un probabile futuro campione a 16 o 17 anni, o che magari il padre si appoggia a qualche nome importante, appena si lancia nel mondo delle stelle immediatamente viene aggredito da questi gruppi che, con delle offerte irripetibili, si portano a casa il campione… e il povero procuratore che lo ha cresciuto nei primi anni rimane solo, deluso e senza guadagni“.
Durante la sua carriera ha avuto come assistiti i più forti calciatori… tutti eccetto uno, ma per sua stessa scelta: Diego Armando Maradona, il più grande di tutti i tempi. Che ricordo ha di lui?
“Non sono stato il procuratore di Diego per mio volere. Il suo manager, Cysterpiller, mi diceva sempre di prenderlo. Diego era il numero uno, ma io avevo Boniek, Passarella, Baggio, i più grandi… non so cosa avrebbero pensato se lo avessi amministrato. Diego lo conoscevo da quando aveva 16 anni e mezzo-17 quando fu ricoverato all’ospedale italiano di Buenos Aires nell’anno ’80, chiaramente andai a trovarlo. Io avevo già concluso due volte l’acquisto da parte del Napoli, però alla fine Ferlaino disse di no. Oggi si arroccano tutti il diritto dell’immagine di chi ha portato Maradona a Napoli. Lo stesso Ferlaino diceva ‘Io sono stato quello che ha portato Maradona a Napoli’… bugie! E lo dico senza mezzi termini, perché una sola persona del Napoli doveva essere menzionata (cosa non avvenuta), ovvero Antonio Juliano, ex Direttore sportivo del Napoli. Fu lui che mi mandò a Buenos Aires nel 1980 per portare a Napoli Maradona“.
“Nonostante fosse stato già acquistato dal Barcellona con un’anticipazione di un milione di dollari (parliamo di soldoni all’epoca), io riuscii a fare un contratto e tornai a Napoli trionfante, perché misi per iscritto che noi ci saremmo assorbiti 2 milioni di dollari di restituzione al Barcellona: il milione più la penale. Maradona aveva chiesto pochissimo, ovvero 750 mila dollari all’anno, stessa cifra che aveva chiuso con il Barcellona. Facendo io un piano economico, al Napoli sarebbe costato 2 miliardi di lire all’anno, trasferimento compreso. Fu una grossissima occasione, ma Ferlaino all’ultimo momento disse di no. Alle fine andò a spendere 15 miliardi, quando sempre io proposi il trasferimento dal Barcellona al Napoli a Juliano, che acconsentì. Dopo arrivò finalmente al Napoli, ma dovetti togliere Dirceu, perché il Signor Maradona non lo voleva in squadra. Diego era questo: non voleva avere nessuno che potesse fargli una minima ombra. Lui voleva stare con 11 scarponi, senza avere altri che sapessero giocare a calcio, come Dirceu. Ecco perché mi tolsi all’ultimo dalla trattativa di Maradona: non potevo togliere un calciatore per metterne un altro“.
Dal 10 argentino al 10 italiano: Roberto Baggio. Che rapporto ha avuto con lui?
“Io chiamo Baggio il Maradona d’Europa. Diego ha distratto parecchie menti che amano il calcio, qualsiasi gesto lui facesse attirava l’attenzione di tutti gli sportivi, come unico personaggio da guardare. Baggio passava in seconda linea… Invece se noi mettiamo a confronto i due campioni, fate veramente fatica a dire chi sia il più forte. Maradona era più giocoliere, ma l’incisività e la tecnica di Baggio erano qualcosa di sublime. Io ho sempre detto che tra Baggio, Maradona e Pelè non saprei chi sia stato il più forte“.
Italia ’90 è stato nominato il Mondiale di Antonio Caliendo, come mai?
“L’Italia si è classificata terza, però io ho vissuto la finale tra Argentina e Germania avendo 12 giocatori in campo: 4-5 erano tedeschi, gli altri argentini. L’unica cosa che mi è dispiaciuta è stato non vedere Baggio e Schillaci in finale. Entrambi venivano da un anno d’oro, soprattutto Schillaci che veniva dal Messina in Serie B per poi diventare subito l’uomo attrazione dei Mondiali insieme a Roberto. Questo è l’unico rammarico che ho. Però alla fine, io ho vinto con 12 giocatori in campo nella finale e 5 nell’altra finale (per terzo e quarto posto) tra Inghilterra e Italia“.
Che ricordo ha del presidente Silvio Berlusconi?
“Dire eccezionale è poco, perché un presidente così si conosce una volta ogni morte di Papa. Era unico, appena apriva bocca ti conquistava, ti faceva sentire a tuo agio. Ci siamo conosciuti quando gli avevo ceduto Baggio, anche solo sulla parola… Ciò che mi porto dentro di Berlusconi è l’attenzione che ha avuto nei miei confronti. L’allora presidente della Juventus, Montezemolo, mi disse di aver acquistato Baggio, ma sapevano dell’accordo tra noi e il Milan. Io non avevo firmato nulla, ma c’era la mia parola d’onore, che vale 10 contratti scritti. Pertanto, su invito di Berlusconi andai ad Arcore e lui stesso mi aprì lo sportello della macchina. Questa era la grandezza dell’uomo. Mi ringraziò per il mio comportamento, dicendomi poi di dover rinunciare a Baggio dietro accordo con l’Avvocato Agnelli. Il motivo? In quel periodo Berlusconi stava acquisendo la maggioranza delle azioni della Mondadori. All’epoca fu una confidenza di grande rilievo. In quel momento chi si accaparrava Baggio, esprimeva la sua grande forza. E nonostante fosse in discesa, ancora una volta Gianni Agnelli ha voluto dimostrare di essere il numero uno in Italia“.
Nel 2003 a Montecarlo prende vita un progetto di Antonio Caliendo: il Golden Foot.
“Quest’idea è nata dal Pallone d’Oro. Assegnare in 20 anni questo trofeo a due persone è come andare andare a prendersi una cioccolata al bar, non è più prestigioso. Mentre invece io ho creato il Golden Foot proprio per riconoscere un premio a un campione che potesse lasciare qualcosa in cambio, cioè le impronte dei suoi piedi. Il Golden Foot si vince una sola volta nella vita, questa è la differenza tra noi e tutti gli altri premi al mondo, è unico. Inoltre, è in evoluzione: tra qualche mese infatti verrete messi al corrente di quale sarà il prossimo futuro del Golden Foot“.
Uno dei vincitori del Golden Foot è stato anche George Best, storica bandiera del Manchester United.
“Il Manchester United ha un museo e George Best è in un angolo, ma non ci sono le sue impronte. Noi siamo gli unici custodi delle impronte dei piedi di George Best. Lui ha lasciato in me un ricordo e un’attenzione tale da reputarlo uno dei campioni che più mi è rimasto nel cuore. Una persona così sensibile e amante della vita, un carattere straordinario. Io ho avuto la fortuna di averlo qui a Montecarlo. In quella serata furono premiati alcuni numeri 7: vi erano Shevchenko, Weah, Gigi Riva, Rivelino, Gento… Quando George salì sul palco per ritirare il premio, il cronista gli chiese chi fosse il più grande numero 7 nella storia del calcio. Lui guardò in tutta sala e poi disse ‘Scusatemi, c’è qualcuno della famiglia Beckham? No, allora sono io‘… Questo era Best“.
Quale calciatore di oggi vorrebbe rappresentare?
“Avevo individuato in Tonali e Zanioli quelli che potevano essere delle pedine importanti per la Nazionale italiana. Ma siamo a livelli molto più bassi rispetto ai miei anni. Il calcio è letteralmente cambiato, oggi non riesco a vedere una partita intera… mi annoia. Vedere questo tiki-taka… mi sembra un videogioco. Questo non è il calcio che ho vissuto io, né m’interessa molto. Non si può confrontare con quello degli anni ’90: oggi non si vede una giocata alla Baggio o alla Maradona. Il calcio è bello quando c’è fantasia, ma da quando è tutto atletico è solo una questione di schemi“.