Siamo nei minuti di recupero del match Lazio-Juventus valido per la settima giornata di Serie A. I bianconeri sono a pochi secondi da una vittoria pesante, frutto della migliore prestazione della stagione, la più completa. Weston McKennie recupera una palla al limite dell’area e la scarica su Paulo Dybala, l’argentino non la riesce a controllare e gli avversari guadagnano una rimessa dal fondo. Sugli sviluppi dell’azione successiva nasce il pareggio dei biancocelesti.
Il numero 10 finisce in un vortice, non nuovo per lui, di feroci critiche: è il colpevole numero uno di quanto accaduto, il soggetto espiatorio sul quale scaricare tutte le frustrazioni circa il risultato e anche verso la sua figura. La figura di un giocatore indolente, svogliato, molle, non all’altezza del futuro che avevamo immaginato per lui, di quella proiezione che sta finendo per schiacciare egli stesso, rendendolo consapevolmente impotente e freneticamente smanioso di conquistarsi la conferma che quelle speranze, nate al suo arrivo a Torino, alberghino ancora in qualcuno. Che sia, questo qualcuno, tifoso, tecnico o esponente societario. Che quelle speranze si manifestino magari in un contratto da top player mondiale, ritratto di un atto di fede eterna.
È in questo incipit che possiamo trovare una risposta alla questione che agita gli animi degli appassionati: cosa sta succedendo a Paulo Dybala? Niente per quanto riguarda la cifra tecnica del ragazzo e il suo valore assoluto. Tutto, invece, è collocabile in un universo emozionale, sentimentale e concettuale nel quale lo avevamo posto prima di accorgerci di aver sbagliato. Un errore questo che non riusciamo accettare perché ci fa male e che, dunque, tendiamo a rimuovere, finendo per ricascarci e trascinando lui con noi.
Potremmo stare qui a parlare dei problemi fisici che tempestano l’argentino. Perché, per chi non lo ricordasse, è bene sottolineare che la Joya, tra i tanti giocatori colpiti dal Covid, è stato uno che ha subito in maniera forse più massiccia la malattia. Lo abbiamo dimenticato per le sue prestazioni post-lockdown, che hanno valso a lui il premio come MVP del campionato e alla Juve di Sarri lo scudetto.
Successivamente, però, ha dovuto fare i conti con una debilitazione fisica che gli è costata prima un grave infortunio muscolare (quello che gli ha fatto saltare il match col Lione), poi dei problemi gastrointestinali in Nazionale e ancora disturbi uro-genitali. Fastidi questi che certamente hanno avuto delle ricadute sulla sua tenuta mentale. E passiamo all’aspetto portante della questione, perché l’attuale status della Joya si gioca tutto lì, o meglio, nella dicotomia benessere psichico/aspettative personali e/o collettive.
Prendiamo l’azione alla quale facevamo riferimento di Lazio-Juve. Abbiamo già trovato un colpevole, abbiamo la fotografia del suo mancato controllo e sappiamo perfettamente cosa è successo dopo, in termini di risultati e critiche. Se mandiamo avanti il nastro, però, possiamo accorgerci, dopo quel fatidico evento, che Cuadrado perde Correa, permettendogli di ricevere e girarsi, Rabiot e Demiral chiudono sull’argentino senza alcuna cattiveria come se non fossero consci della pericolosità dell’azione e, infine, che Bonucci concede a Caicedo, spalle alla porta, di girarsi e tirare.
In breve, con una mano possiamo contare facilmente almeno quattro errori tecnici, cinque, e finiamo le dita, se aggiungiamo quello precedente di Dybala. Ma no, il mignolo non lo abbiamo alzato perché quello dell’argentino non è finito nella categoria errori tecnici, è diventato un processo social e mediatico. Gli altri hanno sbagliato, ok, ma Paulo lo ha fatto perché non ha mai il giusto atteggiamento, perché non è grintoso, perché non è mai decisivo quanto conta, perché vuole più soldi. È vero tutto questo? Forse. La prima verità, però, è che Paulo è un grande giocatore, ma non l’extraterrestre che avevamo in mente e questo non lo sopportiamo, anzi lo viviamo come un tradimento.
È cominciato tutto con il suo arrivo a Torino, dopo Tevez. I primi mesi, i primi tempi di Juve furono di un livello eccelso, ci stropicciavamo gli occhi guardandolo usare quel sinistro e anche lui si divertiva. Si, eravamo sicuri, un altro argentino era pronto a prendersi il mondo, dopo Messi. Il culmine fu raggiunto con il dieci che andava a cucirsi sopra le sue spalle, stavamo assistendo alla consacrazione del nuovo Sivori, Baggio, Del Piero. Nei nostri sogni più reconditi non osavamo immaginarci un altro messia del calcio in Italia, eppure era qui.
Poi, è successo qualcosa. I bianconeri, presi dal player trading e dalla voglia di vincere la Champions, hanno cominciato a modellare e a smontare la squadra ad ogni finestra di mercato disponibile. Sono arrivati tanti campioni, non sempre compatibili con la Joya, sono cambiati gli allenatori ma non le aspettative intorno a Dybala, lui restava un punto fermo. E Dybala, nel tempo, è rimasto semplicemente quello che era: un grande giocatore, con qualche difficoltà tattica, che inevitabilmente ha pesato sulle sue performance.
I suoi numeri (13esimo marcatore all time della storia juventina, con 96 gol in 234 presenze – negli ultimi trent’anni, considerando le prime cinque stagioni vissute in bianconero, solo Roberto Baggio, 115 in 200 gare ha fatto meglio – cinque gol in 16 partite della fase a eliminazione diretta della Champions League – e soltanto Cristiano Ronaldo ha segnato più di lui in queste gare), non ci hanno fatto strappare i capelli, non ci hanno permesso di vederlo materializzarsi nell’Olimpo dei più grandi della storia, e le sue prestazioni talvolta lo hanno allontanato definitivamente dall’idea che avevamo di lui.
Essere “solo” quello che è, rispetto a quello che avrebbe potuto essere, ci ha portato a svilirlo e a sottostimarlo, parallelamente a svilirsi e a sottostimarsi. Paulo ha finito per perdersi davvero e lo testimoniano, appunto, le sue richieste di rinnovo completamente fuori contesto storico/economico, non altro che una richiesta di affetto, di considerazione.
Una considerazione che ha sentito mancare con l’arrivo di Ronaldo, che ne limita i movimenti e lo ha reso in campo un emarginato, che ha visto dileguarsi con l’esplosione di Morata, il quale lo ha scalzato anche dal ruolo di spalla, ed è svanita, in cuor suo, per la presenza di Kulusevski. Il talento svedese che l’ha sostituito negli occhi dei tifosi e della società. Un giovane che è esattamente ciò che era il piccolo Dybala venuto da Palermo, un predestinato ne scalza un altro. Cambiano, allora, la sua vita, il suo status e i suoi progetti, è questo fa male perché è un aprire gli occhi, perché, in fondo, in quelle aspettative aveva creduto anche lui.
Resta semplicemente ciò che è: un grande giocatore. Per continuare ad esserlo senza correre il rischio, naturalmente plausibile, di perdere anche il suo livello naturale, discendendo a semplice epifania, c’è solo una soluzione. Una soluzione che sta tutta nella mancanza di legame che intercorre tra noi e lui. Noi possiamo continuare a pensare di lui quello che vogliamo, e lui non deve più pensare a noi.
È in questa indifferenza che la Joya può venire fuori dagli stereotipi e vivere in maniera serena il suo potenziale e il suo talento. Cosi senza piangersi addosso e involvendo, potrà splendere come quando si sentiva amato e quella luce sarà abbastanza per renderlo partecipe di una carriera importante.