Depressione, male del secolo depennato dal vocabolario del calcio

Depressione, male del secolo depennato dal vocabolario del calcio

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Com’è possibile per uno sport, uno spettacolo, che deve praticamente tutto il suo successo alla capacità di suscitare emozioni, non trovare spazio per i sentimenti dei suoi protagonisti? Il calcio pare riuscirci benissimo. Non tanto a reprimere ogni emotività, quanto confinarla nella comfort zone, perlopiù dicotomica, di gioia e rabbia. E poco più. La gioia del gol. La rabbia del gol sbagliato. La gioia di chi segna che fa il paio con la gioia di chi tifa, sugli spalti o davanti alla televisione. Così come la rabbia, che a volte si traduce in violenza, altre in forme di odio tra le più becere che si possano immaginare.

Inutile dire che in mezzo, nella testa di un calciatore, così come in quella di un tifoso, anche se spesso non pare rendersene conto, c’è un oceano di sfumature. Con le quali tutti, quotidianamente, dobbiamo fare i conti. Che si lavori in una fabbrica o che si giochi a pallone. Sembra retorica, pure piuttosto spiccia, ma non lo è. Ognuno ha il suo carico di pressioni da affrontare, più o meno aiutato dall’ambiente lavorativo e sociale ne quale vive. La depressione, in questo senso, è stata considerata per lungo tempo una bizza da benestanti, come se l’operaio non potesse soffrirne.

Ancora oggi, che pure dovremmo aver fatto i conti con quella che è una vera e propria malattia, in certi ambiti è difficilissimo affrontare l’argomento. E il calcio è senza dubbio tra questi, nonostante sia uno degli ambiti professionali più sensibili. Uno studio della FifPro, il sindacato mondiale dei calciatori professionisti, pubblicato giusto un anno fa (aprile 2020), realizzato con l’ospedale universitario di Amsterdam, ha aperto uno squarcio su una realtà che, a giudicare dalle storie personali di tanti campioni del passato, da George Best ad Adriano, è tutto fuorché sorprendente.

L’infelicità fa parte anche del calcio. In tutte le sue forme, comprese le più gravi, ossia la depressione. Causata dagli stessi identici motivi e paure di cui soffre uno studente, un dirigente d’azienda, una casalinga. E lo si vede bene proprio nelle prime settimane del lockdown che ha fermato i campionati di calcio in tutto il mondo. All’epoca, infatti, il 22% delle calciatrici e il 13% dei calciatori mostravano sintomi compatibili con la diagnosi di depressione. Mentre si parlava di “ansia generalizzata” per il 18% delle giocatrici e per il 16% dei giocatori. Percentuali che, prima dello scoppio della pandemia, non superavano l’11% per le ragazze e il 6% per i ragazzi.

Per dovere di cronaca: la percentuale degli italiani depressi è, grosso modo, del 5,4%, ossia inferiore a quella dei calciatori depressi in epoca pre Covid-19. Qualcuno ha avuto il coraggio di affrontare i propri demoni, più o meno grandi, come Andres Iniesta, caduto in depressione nel 2010. Altri, come Gianluca Pessotto, hanno letteralmente visto la morte in faccia una volta finito con il calcio giocato. E poi c’è chi, pensiamo ad Adriano, si è lentamente abbandonato ad una spirale di autodistruzione. Ecco, non serve arrivare a casi estremi – che potremmo elencare a decine, da Agostino di Bartolomei a Gary Speed – per rendersi conto che il calcio ha un problema.

Un altro problema, in effetti. Ma bello grosso. La totale mancanza di empatia, che riduce tutto a istinti e pensieri semplici, soffocando le diverse sensibilità, fermandosi, nella sua narrazione, sempre e comunque alla superficie. Una semplificazione estrema, incapace ormai di rappresentare la complessità e la ricchezza, anche culturali, del mondo del calcio. Si potrà obiettare che è solo un gioco, che giocatori e allenatori sono pagati anche per reggere alla pressione, oltre che per divertire noi spettatori. Ma non sta scritto da nessuna parte che un ragazzo debba disumanizzarsi per avere successo. E l’esempio di Davide Astori, splendidamente ricordato nell’anniversario della sua scomparsa dall’ex compagno Saponara, è ancora lì a ricordarcelo.

Si può, e anzi si dovrebbe, avere la possibilità di essere campioni senza perdere la libertà di “sentire”. E senza avere paura dei propri sentimenti. Così come delle proprie idee e delle proprie differenze. Senza che queste diventino una debolezza. Una missione complessa, specie in un mondo intrinsecamente bigotto e conservatore. Ma necessaria, perché prima ci rendiamo conto che i nostri idoli sono di carne ed ossa, e meglio è. In ogni senso, quando ci fanno esplodere di gioia e quando li ricopriamo di insulti, perché non c’è da essere troppo politicamente corretti. La papera di un portiere sarà sempre foriera di epiteti poco carini, e l’ex di turno verrà sempre ricoperto di fischi.

Basta ricordare, come dovrebbero fare in primis, e forse ancora di più e meglio, le società, che dietro a un giocatore in campo c’è sempre un ragazzo, e dietro a un signore in tuta in panchina può esserci un uomo fragile, che troppe battaglie ha dovuto combattere, per reggere anche le pressioni di un lavoro che avrebbe invece bisogno di leggerezza e serenità. Come qualsiasi altro lavoro, come qualsiasi altro aspetto della vita.