Adriano: il prezzo dell’anima
A fare a cazzotti con i propri demoni. Grandi o piccoli che siano, ognuno ha i propri. E se sei un calciatore ricco e famoso, nel pieno dei tuoi anni, sembra tu non possa averne. Almeno, questo è il pensare comune. Come se i soldi e la fama facciano rima per forza con felicità. No, non è così: ognuno ha il proprio modo di rincorrerla e di trovarla, e a volte, non basta neanche essere il calciatore potenzialmente più devastante del pianeta. Per informazioni basta chiedere ad Adriano Leite Ribeiro da Rio de Janeiro.
Il giocatore brasiliano che sbarcò in Italia nell’estate del 2001 acquistato dall’Inter e che negli anni successivi fece innamorare i tifosi nerazzurri. La storia di Adriano è una storia fatta di gloria prima e rovinose cadute poi. Un talento sconfinato racchiuso in un corpo da supereroe, non in grado di stare appresso ad un’anima troppo spesso a brandelli. Quel ragazzo arrivato dalle Favelas non riuscì a rimanere al passo con un mondo che girava troppo in fretta per uno arrivato dal nulla. Adriano è una di quelle persone che ha scelto di essere quello che vuoi essere e per questo merita rispetto. Nonostante una carriera che sicuramente poteva essere molto di più di quella che è stata. Nonostante il mondo dorato del calcio, spesso, pare non abbia troppo posto per i sentimenti. Il brasiliano a distanza di tanti anni è tornato a parlare, si è raccontato sulle colonne di Theplayerstribune.com. Ecco alcuni degli estratti più significativi della sua intervista:
“Le Favelas? Le tingono sempre di nero. È sempre dolore e miseria. E sì, alle volte è così. Ma è complicato. Quando ripenso a come sono cresciuto nella favela, a dire il vero penso a quanto ci siamo divertiti. Penso agli aquiloni, alle trottole e a quando giocavamo a pallone nel vicolo. Un’infanzia vera. Io ero circondato dalla mia famiglia, dalla mia gente. Sono cresciuto in una comunità. Non ho sofferto. Ho vissuto“.
“Avevo 18 anni. Vivevo in una favela. Come potete non dire che sono stato benedetto da Dio? La mia storia non ha un senso logico, neanche per me. Solamente un anno dopo, sono andato all’Inter e la gente mi chiamava “L’Imperatore”. Come la spieghi una cosa del genere? È per forza Dio, ve lo dico io“.
“Certe volte penso di essere, uno dei calciatori più incompresi del mondo. La gente non riesce davvero a capire quello che mi è successo. Loro hanno la loro versione che è completamente sbagliata. In realtà è molto semplice. Nel giro di nove giorni, sono passato dal giorno più felice della mia vita al giorno più brutto. Sono passato dal paradiso all’inferno. Sul serio”.
“Il 25 luglio del 2004 abbiamo vinto con la nazionale la Coppa America contro gli argentini. Perdevamo a pochi minuti dalla fine, loro ci provocavano. Ho fatto gol io e poi abbiamo vinto ai rigori. E’ stato il giorno più bello della mia vita“.
“Il 4 agosto 2004. Nove giorni dopo. Ero tornato in Europa con l’Inter. Mi chiamano da casa. Mi dicono che mio padre è morto. Un infarto. Non mi va di parlarne, ma vi dico che da quel giorno, il mio amore per il calcio non è stato più lo stesso. Amavo il calcio, perché lo amava lui. Tutto qui. Era il mio destino. Quando giocavo a calcio, giocavo per la mia famiglia. Quando facevo gol, facevo gol per la mia famiglia. Quindi da quando mio padre è morto, il calcio non è stato più lo stesso. Ero in Italia, dall’altra parte dell’Oceano, lontano dalla mia famiglia e non ce l’ho fatta. Sono caduto in depressione. Ho iniziato a bere tanto. Non avevo voglia di allenarmi. L’Inter non c’entra niente. Io volevo solo andare a casa. Se devo essere onesto, anche se ho segnato tanti gol in Serie A in quegli anni, anche se i tifosi mi amavano davvero, la mia gioia era svanita. Era mio padre, capite? Non bastava spingere un bottone per tornare me stesso”.
“Quando mi sono rotto il tendine d’Achille nel 2011? Sapevo che per me fisicamente era finita. Puoi operarti, fare riabilitazione e provare ad andare avanti, ma non sarai mai più lo stesso. Avevo perso esplosività. Avevo perso equilibrio. Ancora cammino zoppicando. Ho ancora un buco nella caviglia. Quando mio padre è morto è stata la stessa cosa. Solo che la cicatrice era dentro di me. “Che è successo ad Adriano?” È semplice. Ho un buco nella caviglia e uno nell’anima“.
“Essere L’Imperatore significava avere troppe pressioni. Io venivo dal nulla. Ero solo un ragazzo che voleva giocare a calcio e poi uscire per bere qualcosa con i suoi amici. So che è un qualcosa che non si sente spesso dai calciatori di oggi, perché è tutto così serio e ci sono troppi soldi di mezzo. Ma voglio essere onesto. Io non ho mai smesso di essere il ragazzo della favela”.
“Ho lasciato l’Inter e sono tornato in Brasile. “Adriano rinuncia ai milioni per andare a casa”. Sì, forse ho rinunciato ai milioni. Ma l’anima ha davvero un prezzo? Quanto sareste disposti a pagare per tornare alla vostra essenza?“.
“I soldi, la fama, i riconoscimenti…non cambiano dove sei nato, capite? Non ho vinto una Coppa del Mondo, no. Non ho vinto una Libertadores, no. Ma sapete cosa? Ho praticamente vinto tutto il resto. E ho avuto una vita meravigliosa. Sono stato davvero orgoglioso di essere L’Imperatore. Ma senza Adriano, L’Imperatore è inutile. Adriano non ha la corona. Adriano è il bambino delle baracche che è stato benedetto da Dio. Lo capite adesso? Lo vedete? Adriano non è scomparso tra le favelas. È solo tornato a casa“.