Complice l’attenzione mediatica destata dall’uscita della serie Sky “Speravo de morì prima”, nelle ultime settimane la carriera di Francesco Totti, bandiera e storia della Roma, è tornata prepotentemente al centro del racconto mediatico. Ricchissimo di ricordi. A partire da quello dell’allenatore che l’ha lanciato in Serie A, Carlo Mazzone. Che, però, non è stato il primo a percepirne il potenziale. Già nella stagione 1992/1993, infatti, Vujadin Boškov lo aveva portato qualche volta in panchina, facendolo esordire il 28 marzo del 1993, nei minuti finali di un Brescia-Roma, complice l’infortunio occorso a Thomas Häßler. Giusto un assaggio di quello che sarà, per più di vent’anni, il capitano della Roma.
Per raccontare i suoi primi passi nel grande calcio, non c’è forse niente di più bello delle parola di quel Carlo Mazzone che ne ha colto per primo il potenziale. Proteggendolo dalle pressioni esterne e crescendolo, calcisticamente, come un figlio. Se Francesco Totti è diventato il campione che il mondo ha ammirato, forse, una parte del merito va anche a lui.
“Francesco Totti era un ragazzino di primo pelo quando sono arrivato alla Roma. Era nella squadra Primavera. Non sapevo neanche che faccia avesse quando l’ho scoperto. La storia è questa qui. Il giovedì ero solito organizzare una seduta di allenamento molto severa per provare gli schemi scelti in vista della partita della domenica successiva. A seconda dei vuoti da colmare o delle esigenze tattiche dicevo a Menichini, che era il mio vice, e agli altri collaboratori. “Ah regà, me servono un trequartista e un centrocampista esterno”. E loro andavano con le mie richieste da Luciano Spinosi, l’allenatore della Primavera.
Una volta riunito il gruppo, provavo quello che volevo che si provasse e poi come premio formavo due squadre e organizzavo una partitella in allegria: “Va bè, ragazzi, avevo finito. Mo fate la partita, giocate bene io vi guardo e chi perde domani porta i bignè cò a crema…”
Andai in panchina e guardai la partita e già mi immaginavo i bignè, perché la metà me li mangiavo io…Mi cadde l’occhio su un ragazzino che non avevo mai chiamato, aveva velocità di gambe e di pensiero, grande tecnica di base e abilità di dribbling, potenza di tiro, insomma tutto. Rimasi come folgorato perché quel ragazzino era già superiore alla media dei miei giocatori, era fuori dalla normalità.
Mi ricordo che chiamai Menechini e gli dissi: “Senti ‘na cosa, hai visto quel ragazzino? È proprio bravo bravo, come si chiama?”
Non sapevamo neanche che nome avesse. Allora gli dissi: “Vojo sapè tutto de lui, nome, cognome, età e se va sul motorino…”
Lo vojo in prima squadra fino a sabato, ma non da solo, chiamane altri tre, così camuffiamo, perché poi i giornalisti iniziano a scrivere: “Mazzone lancia tizio…e nun va bene”. Chiamamelo un po’ che ci parlo.
“Come te chiami ragazzì?”
“Mister mi chiamo Francesco…”
“Ciao Francè, fino a sabato stai con noi, ma mi hanno detto che vai in motorino, lascialo sta ‘sto motorino che bene che va te piji la bronchite e me saltano i piani...”
Quel ragazzino di poco più di sedici anni era Francesco Totti, ovviamente non lo mollai più e lui mollò il motorino”.