Accadde oggi: la Premier League scopre il doping
Sembra incredibile a dirsi, ma la Premier League, fino al 1995, non aveva mai dovuto fare i conti con il doping. O almeno, non in maniera ufficiale. La bomba, perché all’epoca fu tale, la sgancia la FA il 3 marzo, quando annuncia che l’attaccante del Crystal Palace Chris Armstrong ha fallito i drugs test. Dalle analisi, a cui viene sottoposto più di un mese prima, il 23 gennaio, risulta positivo alla cannabis. Il calcio inglese, a quel punto, si interroga sul da farsi: punire o educare? Vince la seconda strada, e Chris Armstrong seguirà un breve programma di riabilitazione. Al termine del quale, il 14 marzo, torna in campo, nel match contro lo Sheffield Wednesday.
Armstrong segna la rete del vantaggio, e al termine della stagione i suoi gol saranno otto, ma non basteranno a salvare il Crystal Palace dalla retrocessione. Svanito l’interesse mediatico per il caso di doping, in estate Armstrong passa al Tottenham per 4,5 milioni di sterline, la cifra più alta mai incassata dal Palace. Ma anche la più alta mai pagata, fino a quel momento, dagli Hotspurs. Con cui, nel 1999, vince il suo unico trofeo, la Coppa di Lega.
Il doping, nel calcio inglese, è tornato alla ribalta almeno due volte negli ultimi anni. La prima nel 2016, quando le rivelazioni di un medico, Mark Bonar, fecero scattare le indagini anche sul calcio. Secondo le rivelazioni di uno sportivo, la clinica londinese in cui operava Bonar avrebbe prescritto epo, ormoni per la crescita e steroidi agli atleti. Accuse respinte al mittente dai club coinvolti – Arsenal, Chelsea e Leicester – e indagine naufragata presto. Nello stesso anno, fece scalpore l’uso dello Snus, un farmaco che si assume tra il labbro superiore e la gengiva consentendo una forma di eccitamento istantaneo, proibito in Inghilterra ma non considerato doping, da parte di campioni come. Jamie Vardy e Pierre–Emerick Aubameyang. In quel caso, finì tutto con una multa.