Quando, il 28 luglio 1914, l’Impero Austro-Ungarico dichiara guerra al Regno di Serbia, l’Europa precipita presto in un’escalation da cui nessuno resta fuori. A caduta, tutti gli Stati della Vecchia Europa si schierano da una parte o dall’altra. Da una parte gli Imperi centrali (Germania, Impero austro-ungarico e Impero ottomano), dall’altra gli Alleati, Francia, Regno Unito, Impero russo, Impero giapponese e, dal 1915, Italia. Inizia così una guerra durata più di quattro anni, finita formalmente l’11 novembre 1918. Passerà alla storia come la Prima Guerra Mondiale, un dramma presto diventato il preludio alla più grande tragedia della storia umana.
Il fronte caldo, lungo il quale si affrontano, dalle trincee, milioni di uomini, diventati soldati, è quello occidentale. Una linea frastagliata che attraversa, idealmente, Belgio e Francia, lungo il confine con la Germania. Qui si giocano i destini della Grande Guerra, sin da subito, ma quelli che oggi sono nemici, fino a pochi mesi prima erano solo uomini. Costretti a uccidersi l’un l’altro, ma figli della stessa grande cultura e tradizione. In cui il Natale è giorno di festa, sacro, di pace. E allora, messe per un giorno da parte le armi, il 25 dicembre 1914, in migliaia lasciano le trincee per abbracciare il nemico, almeno per un momento. Scambiandosi cibo e auguri. E dando vita ad improvvisate partite di calcio. Già popolare tra le truppe inglesi, ma amato anche dai soldati francesi e tedeschi.
Episodi sporadici, raccontati in film e romanzi, carichi di significato e di simbolismo, che raccontano meglio di qualunque altri l’essenza stessa del calcio. Strumento di unione, di condivisione, sport popolare, che non conosce confini, neanche quelli messi lì dalla cupidigia dei potenti. Capaci di precipitare un Continente intero in un baratro durato altri 4 anni. Scene del genere, successivamente, non si videro più, perché neanche il calcio può fermare la follia e risanare le ferite dei popoli, sempre più profonde, come le trincee che hanno solcato per anni l’Europa.