L’11 maggio 1969 Firenze festeggiava il suo secondo ed ultimo scudetto. Lo faceva nel segno dell’allenatore Bruno Pesaola, detto il Petisso, capace di far sbocciare i tanti giovani talenti che la Fiorentina aveva negli anni cresciuto con pazienza, e di portare alla vittoria un outsider non assoluto, ma quasi.
Per dare un’idea: quattro giocatori viola di quell’anno, Chiarugi, Merlo, Ferrante ed Esposito, avevano vinto appena tre anni prima il torneo di Viareggio. Il portiere Superchi, venticinquenne, era alla sua prima stagione da titolare. L’anima della squadra, il capitano Picchio De Sisti, aveva appena 26 anni. Ma già indossava il numero dieci e la fascia di capitano, Uomo d’ordine in campo e faro negli spogliatoi. L’unica vera vecchia volpe era il centravanti Maraschi, ventinovenne. Lo davano per finito. La stella? il brasiliano Amarildo, la “riserva di Pelé” ai mondiali del ’62, che sostituì o Rey dopo il suo infortunio e trascinò i verdeoro alla vittoria. Carattere rissoso, era arrivato sulle rive dell’Arno nell’estate ’67, in uno scambio con il Milan che vide partire verso la città meneghina nientemeno che Kurt Hamrin, l’idolo, il goleador.
Il tedesco, soprannominato l’Uccellino per le sue eleganti movenze, aveva segnato 151 reti in serie A e 208 complessive in nove anni con la maglia viola. La sua cessione fu un trauma, specie per il Garoto Amarildo. Che, in effetti, non brillò nel suo primo anno in viola, anche a causa di un infortunio, e che in estate fece parecchie bizze nel tornare dal Brasile.
Pesaola fu ingaggiato nell’estate ’68 dalla dirigenza viola, allenatore dal carattere verace e sanguigno ma di grande preparazione tattica. La lunga era di Giuseppe Chiappella era finita nella primavera precedente, dopo tanti giovani allevati e promossi in prima squadra e una buona serie di piazzamenti. Si parlò a lungo di Helenio Herrera per la panchina viola, invece alla fine arrivò il Petisso, dal Napoli. Si fecero cessioni importanti. Tra gli altri, il portiere della Nazionale Albertosi. Lo avrebbe sostituito la riserva Superchi come titolare. Come Sarti tredici di anni prima.
La piazza non era particolarmente entusiasta di questa nuova squadra, privata delle certezze per questioni di bilancio e piena di talenti ancora inesplosi. Poi la sparata del buon Pesaola: «Signori, ho capito una cosa: se con questa squadra noi non vinciamo lo scudetto, mi faccio frate. Frate trappista, sapete, i frati che fanno più penitenze degli altri». Pareva una follia. Invece fu una profezia, come quella di Fulvio Bernardini nel ’55.
Superchi si rivelò portiere di strepitosa agilità e grande affidabilità. A centrocampo, lo stantuffo Esposito sosteneva la regia di un consacrato De Sisti mentre sulla trequarti esplodeva il giovane Merlo. A destra correvano a turno o Rizzo o il giovane Chiarugi, “cavallo pazzo”. In avanti, la potenza di Maraschi e i dribbling funambolici di Amarildo, campione finalmente ritrovato.
La Fiorentina ’68/’69 chiuse l’annata con una sola sconfitta in campionato, un 3-1 interno contro il Bologna. L’11 maggio, alla penultima giornata di un campionato tiratissimo, i viola si presentarono a Torino. La sera prima, il Milan secondo aveva pareggiato con il Napoli, ex-squadra del Petisso. Si narrano aneddoti sull’albergo viola in quella nottata. «E fatta! Domani, contro la Juve, se perdete vi accoppo!». «Perdere dalla Juve? Mister, lei è matto. Noi domani la Juve la facciamo secca!». Juventus-Fiorentina 0-2. Gol di Chiarugi e Maraschi. Fu scudetto, nel segno del Petisso.